Fio dei fiori Capitolo 28 – Capitolo precedente – Indice
Novembre 1965
“Il nostro amico è molto malato”, esordì così, el piovan, quella domenica, quando, terminata la messa, mi chiamò in disparte. Ci guardammo entrambi a lungo negli occhi, non servivano grandi spiegazioni. “Dovresti andare a Venezia, chiamami Ioani che gli parlo io”. Non so che argomentazioni tirò fuori il buon prete, mio marito non fece nessuna obiezione alla mia partenza.
Attraverso i finestrini della solita vecchia littorina scorreva un paesaggio assai diverso da quello estivo, el caigo ti permetteva solo di intravvedere vagamente i contorni delle cose.
In preda a strani brividi, me ne stavo tutta raggomitolata, più che potevo appiccicata al sedile. Erano ormai tre notti che non dormivo senza darmi pace; ora che finalmente l’avevo ritrovato no, non volevo pensarci.
Non era possibile che Dio mi facesse questo torto, proprio lui che, tramite il suo emissario al paesello, aveva messo mano al destino. Si, perché era stato il nostro prete a togliere Rino dalle sgrinfie di suo padre. Anche in quel caso, fece una provvidenziale telefonata a suor Speranza, per chiedere di ospitare quel povero cristiano, in attesa che trovasse un lavoro.
Venezia, la sua unica e vera casa, lo accolse a braccia aperte, gli diede un lavoro e, se pur con grossi sacrifici, la possibilità di continuare a studiare musica. Incredibile come riuscisse a far coesistere il lavoro di capo cameriere in uno dei più noti ristoranti di Venezia, con la sua attività concertistica.
La sua famiglia ovviamente, lo rinnegò, don Guerino era rimasto il suo unico amico al paesello, al quale, timidamente, qualche volta, chiedeva mie notizie. Sapientemente e, con discrezione incanalato dal prete, il destino ci fece incontrare al Lido.
Cercai di scaldarmi ripensando alla bellissima estate appena trascorsa; non ci riuscii, in quella grigia giornata, era difficile da rievocare la luce intensa del sole che si specchiava nel mare. Dal finestrino, si vedevano le ciminiere di Porto Marghera, sembrava che tutto il caigo circostante uscisse da la; più le osservavo e più mi trasmettevano un brutto presagio. Mesi fa, chissà perché, non le avevo proprio notate, nemmeno quando, con una pesantissima tristezza addosso, feci l’ultimo viaggio di ritorno per portare a casa Teresa.
Non fu per niente facile; fintanto che, durante i quasi quattro mesi della sua permanenza in colonia, tornavo periodicamente al mare per andare a trovarla, riuscivo a sopportare il rientro a casa e tutto quello che ne conseguiva. Riprendere definitivamente la misera e faticosa vita di sempre, comprese le continue sfuriate di Ioani, fu terribile.
Volli conservare segretamente, nel mio intimo, i nostri momenti passati insieme, nessuno doveva sapere quanto era stato bello. A tutti raccontavo esclusivamente di Teresa e della colonia; spiegavo loro che il soggiorno le aveva giovato però, non bastava. Questo, allo scopo di mettere nella testa di quanta più gente possibile, Ioani in primis, che l’anno venturo sarebbe dovuta tornarci.
Lì mi ero trasformata in un’altra persona e, tutto quello che riguardava quell’altra me, doveva rimanere la. Perciò, lasciai alle suore quello che Rino, amorevolmente, mi aveva regalato e ogni cosa che riguardava l’incanto di quei giorni. Due bellissimi vestiti di seta, uno dei quali irrimediabilmente macchiato quella sera a cena nel suo ristorante. Il costume con il quale feci il mio primo bagno. Gli occhiali da sole con i quali guardai i tramonti sulla laguna. Le mie prime e uniche scarpette con il tacco che, mi si ruppe inevitabilmente quando salii in gondola, finendo tra le sue braccia.
Jole, una vicina di casa che gli faceva da governante, mi venne a prendere alla stazione. Camminava anche lei con passo veloce come suor Speranza, dovetti stare attenta a non cadere a causa dell’umidità che rendeva scivolosi i gradini dei ponti. Era molto silenziosa, non scambiammo che poche parole di circostanza.
Venezia, non era la stessa che avevo lasciato, ora tutto aveva un’aria tetra, la gente cupa in viso, camminava velocemente e il rumore dei miei passi echeggiava sinistro nel vuoto delle calli.
Non ero mai stata a casa di Rino. Durante l’estate veniva sempre lui a prendermi al Lido, pensavo lo facesse perché si vergognava di mostrarmi dove abitava. Invece, appena varcai la soglia, rimasi estasiata, la casa era molto spaziosa e lussuosa, una vera reggia, tutto lì dentro trasudava signorilità come lui.
Rino mi accolse in maniera abbastanza formale, capii subito che ciò era dovuto alla presenza della signora Jole. I primi momenti furono davvero imbarazzanti, seguiva ogni nostro passo mentre lui mi mostrava la casa. Non gli fu facile togliersela di torno, non gli bastarono le insistenti rassicurazioni, alla fine dovette quasi arrabbiarsi perché questa capisse che doveva lasciarci soli. Rino, quasi piangendo, mi spiegò che, siora Jole, era stata incaricata dai suoi fratelli di marcarlo stretto, non tanto per le sue condizioni di salute, ma, al solo fine di evitare che eventuali persone estranee sottraessero roba dalla sua casa.
“Via, no’ stemo qua a pensar ae disgrassie”, prese ad abbracciarmi forte come quel giorno in ospedale, capii subito che non voleva toccare l’argomento malattia. Mi allontanò un pochino da lui per guardarmi bene negli occhi, “Ti xè bea come el sol che ti me ga apena portà”, in effetti, dalle finestre entrarono dei raggi di sole mentre, il colorito della sua faccia si fece più acceso. A parte qualche frequente colpo di tosse, era tornato il Rino in versione estiva.
Pareva un bambino al luna park, mi portò nel soggiorno e iniziò a tirar fuori di tutto, bottiglie, pacchi di biscotti e scatole di cioccolatini, lo calmai dicendogli che mi sarebbe bastato un semplice caffè. Mentre trafficava in cucina, iniziai a guardarmi attorno, era tutto così diverso dalla mia rozza casa colonica sperduta in mezzo ai campi. Ero particolarmente attratta dalla bellissima libreria in noce; libri e dischi dappertutto, un tipo di mobile, fino a quel momento, a me sconosciuto; dove vivevo, non si sentiva certo il bisogno di cultura. Scorsi qualcosa che mi fece alzare dal divano, su un ripiano c’era una cornice d’argento con la foto di noi due, insieme al Lido; la ricordavo benissimo, ce l’aveva scattata il suo amico barista del Gran Viale. “Me so permesso, ti xè l’unica persona cara che me xè rimasta”, non mi ero accorda che era sopraggiunto alle mie spalle con il vassoio del caffè.
“Camina paiasso”, gli rispondevo sempre così, quando mi spiazzava con i suoi complimenti; impossibile contare quanti me ne aveva fatti durante l’estate. Si era però sempre fermato lì, andare oltre non era cosa per un signore come lui. Il suo modo di volermi bene consisteva semplicemente nell’ascoltarmi. Era stato così durante tutta quell’estate; parlammo tanto distesi sui murazzi o, seduti in quel bellissimo caffè sul Gran Viale. Al massimo era arrivato ad abbracciarmi oppure a toccarmi delicatamente la mano. Quei giorni, man mano che parlavo con lui, un po’ alla volta, tutta l’infelicità degli anni passati si dissolse sotto quel bellissimo sole.
Quel miracoloso strumento, il giradischi, dal quale uscivano le note delle canzoni in voga la scorsa estate, fece in modo di riscaldare l’atmosfera. Mentre ballavamo in salotto, quei giorni passati al Lido, ora, non sembravano poi così lontani.
In un battibaleno arrivò l’ora del pranzo. Ce lo portò Marietto, il cuoco del ristorante dove lavorava, “preparà con amor”, ci disse il simpatico personaggio. “Torna presto, te spetemo”, salutò e abbraccio Rino quasi piangendo.
Dopo pranzo, mi chiese gentilmente la cortesia di ritirarsi un po’ in camera per fare un pisolino, era molto stanco, a suo dire, per colpa delle troppe medicine. Ne approfittai per lavare i piatti e riassettare la cucina. Calò uno strano silenzio in quella casa, d’un tratto mi presero nuovamente i brividi di freddo che avevo avuto in treno. Istintivamente mi recai in camera sua, era sveglio e mi chiamò; con tutta naturalezza mi coricai accanto a lui per scaldarmi.
Pareva di essere tornati distesi sui murazzi, gli proposi il gioco del “me piasaria”. Ce lo eravamo inventati proprio lì, mentre stavamo con lo sguardo al cielo, consisteva nell’esprimere i nostri desideri, quelle cose che, almeno una volta nella vita, andrebbero fatte. Almeno per me, in quella interminabile estate, se ne avverarono tanti. Grazie a lui, feci un sacco di cose per la prima volta; come mangiare una gigantesca coppa di gelato, la pizza, un giro in gondola, fino a superare le mie paure ed entrare in acqua quasi fino alla testa.
“In vita mia non go mai fatto l’amor”, mi accorsi che lo stava dicendo singhiozzando. “L’amor”, Ioani, “quella roba”, l’aveva sempre chiamata in un altro modo, non credo che lui e i suoi amici, avessero mai usato quel termine, nemmeno quando andavano a divertirsi con altre donne. Finora, per me, “quella roba”, non aveva mai avuto niente a che fare con l’amore.
Rino teneva sempre fuori dai nostri discorsi i problemi di salute, non voleva farmi pesare la sua sofferenza. Ormai, però, gli ero talmente vicina che intuivo tutto, i brividi di freddo che sentivo, lo dimostravano. Cercavo in tutte le maniere di scacciare certi brutti pensieri ma, quel desiderio che aveva espresso, quell’unico rimpianto della sua esistenza, non lasciava dubbi.
Alcuni mesi dopo, il pomeriggio del 24 gennaio 1966, Rino mi lasciò per sempre. Angelo, tu non ci crederai, ma in quel preciso momento sentii una dolorosa fitta al petto, il giorno dopo, quando don Guerino, venne a darmi la notizia, si stupì nel vedermi piangente, distesa a letto. Neanche il tempo di seppellirlo che i fratelli quasi si ammazzarono per dividersi il suo discreto patrimonio. Un giorno mi feci coraggio e chiesi a Piero, il più vecchio, della fisarmonica. Seccato mi rispose che Rino non ne aveva mai avuta una.
Angelo, mi dispiace, ma è da quel pomeriggio di gennaio che, anche la mia mente ha iniziato pian piano ad andarsene insieme a lui. Da quel giorno è stata una fatica pensare, ricordare e, vivere. Di lui mi rimane solo il ricordo di quella canzone, l’ultima che mi ha cantato, … e tu.
“Mercoledì 8 dicembre 2009, ore 14.30, fuori piove, no, questo ovviamente non va scritto. Giuseppina Milanese, nata a Oderzo il 27 settembre 1926, anni 83. Sandra, mi da il numero del figlio, lo avviso io”
________________ *________________
Ovunque sei, se ascolterai
Accanto a te mi troverai
Vedrai lo sguardo
Che per me parlò
E la mia mano
Che la tua cercò
Ovunque sei, se ascolterai
Accanto a te mi rivedrai
E troverai un po’ di me
In un concerto dedicato a te
Ovunque sei, ovunque sei
Dove sarai mi troverai
Vicino a te
Umberto Bindi – “il nostro concerto” – 1961
Sabato 26 agosto 2017
Fa un certo che salutare questi tre amici dopo il lungo periodo passato a scrivere di loro. Me ne sto seduto con i pedi a penzoloni alla fine di questo pontile, esattamente come dieci anni fa quando le loro voci hanno iniziato a sovrastare il rumore del mare in un caldo sabato pomeriggio di fine agosto come questo. Mi sono dilungato nella scrittura forse perché mi dispiace separarmi dal loro ricordo.
Vi volevo innanzitutto tranquillizzare riguardo la sorte di uno. Malgrado quell’avventura lo abbia segnato, ha contribuito a tracciare definitivamente la sua strada; ora fa parte di quella nutrita schiera di, nel suo caso per modo di dire, ragazzi, che si chiamano cooperatori internazionali.
A proposito di strade, se vi capita di passare per Londra, Berlino, New York o in qualche altra città e sentite una specie di chitarrista che canta, in un inglese dal tipico accento country veneto, nostalgiche canzoni degli anni ’70, cercate di contribuire al suo sostentamento comprandogli il CD, o anche no, gli farà piacere lo stesso.
Invece, per qualcun’altro, non è cambiato poi chissà che, lo potete trovare alle otto e dieci precise a far colazione al solito bar. Ah, dimenticavo, c’è una novità nella sua vita: non prende più il cappuccio ma solo il caffè, ha scoperto che il latte gli fa male.
Goodbye Mulls!
Michele