Fio dei fiori Capitolo 27 – Capitolo precedente – Indice
Probabilmente per la sua incantevole posizione, a vederlo da fuori, l’Ospedale al Mare non dava l’aria di essere un posto triste; il bellissimo corridoio vetrato, che dava sul giardino interno, lo faceva sembrare quasi un albergo.
Il sudore delle mie mani, stava ormai cancellando reparto e numero di stanza dal bigliettino che, poco prima, mi aveva dato suor Speranza.
“Una persona che ti conosce ha chiesto di te. Ora è ricoverata in ospedale qui al Lido, gli farebbe molto piacere se andassi a trovarla”
Non so perché, ma mentre me lo disse, iniziarono a tremarmi le gambe. Ovviamente gli chiesi chi era, “mi ha telefonato don Guerino, altro non so” e allargò le braccia.
Le indicazioni portavano al reparto maschile. Il mio battito aumentava man mano che i numeri sulle targhette si avvicinavano a quello scritto nel biglietto. Sentivo qualcosa dentro, in cuor mio non avevo mai perso la speranza, rallentai il passo, indugiai un po’ prima di entrare, non avrei sopportato una delusione, per cui, pregai il buon Dio che quella persona fossi tu.
Negli interminabili minuti che seguirono, quella stanza di ospedale con tutti i suoi pazienti sembrò magicamente sparire, sparirono anche gli odori nauseabondi, restò solo il buonissimo profumo del tuo dopobarba. Sparirono tutti i rumori della corsia, nel silenzio, come quella sera, restammo solo io e te, abbracciati a piangere come due bambini.
La mia memoria assomiglia ai segni che mi divertivo a fare con i piedi sul bagnasciuga, dopo un po’ arrivava l’onda e spariva tutto, ho scordato tante date, ma mai sabato 11 settembre 1954.
A quei tempi, in campagna, l’ideale di uomo era ancora quello tramandato dal fascismo; virile, forzuto, autoritario e gran lavoratore. Tu, Rino el matto, lo scansafatiche del paese, eri l’esatto contrario. Non eri certo fatto per la vita nei campi, il tuo fisico gracile a malapena sopportava il peso della fisarmonica. Per mio padre eri una “femenea”, questa e altre cose ben peggiori sentivo dire di te; eppure, erano tutti pronti ad acclamarti re della festa, per i momenti di allegria che regalavi.
Passo ancora tanto tempo a chiedermi cosa, quel sabato sera, mi ha fatto fermare lo sguardo per osservare incantata le tue dita scivolare rapidamente sui tasti. Inutile cercare spiegazioni, forse è stata magia pura, come il suono che usciva dalla tua fisarmonica.
Mai una parola tra noi fino a quella sera, solo sfuggenti sguardi durante la messa domenicale. Ad un tratto ti sei accorto che ti stavo guardando. “Cogli l’attimo!”, sembrava ci dicesse qualcuno; trovasti il coraggio per chiedermi di provare a suonare. In piedi, dietro di me, accompagnavi delicatamente le mie mani sovrapponendole alle tue, arrossimmo entrambi, ci mancò poco che feci cadere la fisarmonica per terra, da quanto ero emozionata.
Tra i filari di viti stracolmi di uva profumata pronta per la vendemmia, il silenzio della campagna ci avvolse. Il tempo sembrò fermarsi per concederci interminabili momenti in cui parlare di musica e sogni.
La domenica mattina, nascosto dietro la canonica, con voce flebile mi chiamasti, ti vergognavi, cercavi a fatica di coprire i lividi che avevi in volto. Alla mia richiesta di spiegazioni iniziasti a piangere. Marceo, tuo padre o meglio, il tuo padrone, ti aveva preso a bastonate per essere tornato a casa tardi dimenticandoti di rigovernare la stalla. Urlava che non eri simile ai tuoi fratelli, lo stavi portando alla disperazione, solo un matto poteva comportarsi così.
Poi, il bacio e la promessa: “co torno te porto via co’ mi” un attimo, il tempo di riprendermi, ed eri già voltato di spalle. Ti vidi mentre ti allontanavi velocemente con il tuo bagaglio, un sacco di patate con dentro le poche cose che possedevi, oltre l’immancabile fisarmonica in spalla.
Da quella domenica un pezzetto della tua anima rimase comunque in me e non mi avrebbe mai abbandonata. Per questo non mi stupii più di tanto nello scoprire che c’eri tu dentro quella stanza di ospedale.
Quello che invece mi sorprese e che solo dopo due giorni ti dimisero. Non me la stavi raccontando giusta sul fatto che ti avevano ricoverato per un semplice controllo ed ora stavi benissimo. Scoppiai però di felicità quando, in sella a una Vespa e, vestito come un damerino, ti presentai strombazzando di fronte al cancello dell’asilo. Faticasti non poco a tranquillizzare suor Speranza ma, grazie alla tua parlantina, anche se eri Rino el matto, ti concesse, da quel giorno in poi, di accompagnarmi agli Alberoni da Teresa.
Su quella Vespa, seduta di lato aggrappata a te, come si usava al tempo, trascorsi i giorni più belli della mia vita.