Giuseppina

Fio dei fiori Capitolo 25 – Capitolo precedenteIndice


Mercoledì 8 dicembre

Giuseppina Milanese, nata a Oderzo il 27 settembre 1926.

Quando sento qualcuno dire queste parole significa che, probabilmente, sono finita ancora una volta in ospedale o in un posto simile. Ho una grande confusione in testa, mi sembrava ci fosse Angelo qui, o era forse ieri.

Angelo, continuamente a tempestarmi di domande, un’abitudine che aveva fin da piccolo. Io, una povera contadina ignorante, non ho mai saputo dargli le risposte che cercava. Ora che ho un attimo di lucidità e, dovrei dirgli una cosa importante, è sparito come fa spesso.

C’è un sacco di gente che passa in corridoio, ogni persona di cui sento i passi, spero sia lui; è brutto essere qui da sola, forse è ciò che mi merito per come mi sono comportata. Chissà che giorno è, fuori piove. La pioggia mi è sempre piaciuta, era bello, mentre ero distesa a letto, sentirla battere sul tetto; a volte significava aver un po’ di tempo in più per sognare.

I sogni, l’unica cosa bella che mi restava nelle infinite giornate intrise di cesti colmi di roba da lavare, letti da fare, vacche da mungere, galline da accudire e faticosi lavori nei campi che mi spezzavano la schiena. I sogni, fino a oggi, mi hanno permesso di sopravvivere, anche se, ora, sono un po’ sbiaditi come i “romansetti”, vecchi e sgualciti fotoromanzi in bianco e nero che, di nascosto dai mariti, ci passavamo tra noi donne.

Da quanti anni ormai continui a essere l’unico protagonista dei miei sogni? Probabilmente da quella domenica mattina quando, trascinato dalla musica, avevi trovato il coraggio di scappare e, dietro la canonica, mi baciasti furtivamente, con la promessa che saresti tornato per portarmi via.

Per anni, ogni giorno, sperando almeno di sognarti, non vedevo l’ora che arrivasse il momento di andare a dormire; non appena mi distendevo su quel ruvido materasso di crine, iniziavo a fantasticare.

Purtroppo la realtà era diversa, la puzza e il russare di Ioani, coricato accanto a me, servivano a ricordarmelo.

La stessa puzza che ho sentito per la prima volta quel giorno in stalla quando, dopo essersi assicurato che la porta fosse chiusa, mi disse, “speta che te mostro ‘na roba”. Provai un dolore lancinante quando, poco dopo, quella “roba” me la sentii in mezzo alle gambe mentre lui ansimava emanando folate maleodoranti di vino.

Noi donne dobbiamo passarne tante”. Una frase che sentivo ripetutamente pronunciare dalle anziane; per questo, in quel momento, non ebbi nessuna reazione. Nella mia ingenuità e ignoranza pensavo a quell’atto violento e doloroso fosse la prima tappa da affrontare per diventare una donna matura. A conferma di questo poi, Ioani, tutto sudato e soddisfatto mentre si ricacciava dentro i pantaloni “la roba” tutta bagnata e sporca disse: “dai bea che ancuo te go fatto diventar dona”.

Se non fosse stato per le forti perdite di sangue che “la roba” di Ioani mi aveva provocato, di quell’episodio non ne avrei mai fatto parola con nessuno. Purtroppo invece dovetti subire un ulteriore umiliazione dal tribunale familiare. Io e Ioani, non importava se contro la mia volontà, avevamo fatto “robe sporche”, le perdite di sangue si sarebbero fermate ma io, dopo morta, invece, ero destinata a finire all’inferno per l’eternità. L’unica soluzione per redimermi era sposarlo.

Anche se tenute volutamente nell’ignoranza, noi donne di campagna, prima o poi, le cose le capiamo. L’ho capito molto prima di quella sera, una delle tante che tornava a casa ubriaco, quando mi rinfacciò di avermi usato violenza su pressione di mio padre, altrimenti c’era il rischio che rimanessi zitella.

Continuiamo però a mandare giù il boccone amaro e girare a testa bassa perché, alla fine, siamo noi le peccatrici che devono espiare le colpe.

Giugno 1965

La vecchia littorina marron procedeva spedita attraverso i campi, i finestrini erano aperti e mi godetti tutta l’aria calda che impattava contro il viso, i campi cessarono, le case sempre più fitte e alte, i palazzoni, la civiltà. Non appena iniziato il ponte che collega la terraferma a Venezia, entrò aria salmastra, respirai a pieni polmoni inebriata dalla felicità mentre il cuore iniziò a battere quasi al ritmo del treno, era il mio primo vero viaggio.

La vecchia littorina, sfigurava già di suo al confronto con gli altri treni fermi sulle banchine della stazione, in più, io e Teresa, con le nostre vecchie valigie, sembravamo delle migranti sfuggite a fame e miseria.

Suor Speranza era lì ad aspettarci, per fortuna, perché altrimenti non saremo mai potute arrivare da sole agli Alberoni. In quella località di mare, c’era la colonia nella quale Teresa avrebbe dovuto rimanere tutta l’estate per curarsi l’asma.

Ioani si era opposto con tutte le forze alla soluzione che il medico aveva prospettato per la figlia. Nella sua testa, l’andarcene al mare io e Teresa non era una necessità, bensì una futile vacanza. Le spese per acquistare quelle quattro cose che servivano a Teresa lo avevano mandato fuori dai gangheri; povera, fino ad allora non aveva mai avuto un costume da bagno. A me, ovviamente, questo acquisto non era consentito visto che dovevo limitarmi a rimanere, ospite delle suore, solo qualche giorno affinché Teresa si ambientasse. Alla stazione era parecchio nervoso e infastidito, forse per il fatto che perdeva la sua serva; inoltre, aveva dovuto lasciarmi dei soldi per le eventuali spese da affrontare.

Nonostante l’andatura spedita della suora, alla quale, specie Teresa, faticava a stare dietro, riuscii ad avere un primo assaggio di Venezia.

Non avevo fatto il viaggio di nozze e non ero mai stata in nessun posto che distasse pochi kilometri dal paesello. Venezia sembrava costruita solo per bellezza, non c’erano immensi e monotoni campi di terra dove, curvata, dovevo faticare. In giro non c’erano vacche, maiali galline e altro ma, un grosso numero di gatti che avevano tutta l’aria di fare la bella vita senza rischiare di essere ammazzati per puro profitto. Pareva di stare a una gigantesca festa, era pieno di gente sorridente e vestita elegantemente.

Io e Teresa sembravamo due personaggi arrivati da chi sa quale mondo, il nostro abbigliamento austero da campagnole era in netto contrasto con i bellissimi vestiti colorati e le gonne leggere e svolazzanti che indossavano le signore a passeggio. Mi soffermai a guardare le loro mani, belle curate, senza calli e con le unghie smaltate; mani che non dovevano certo sporcarsi di terra come le mie, quella terra che ti finisce sotto le unghie rendendotele perennemente sporche e delle quali mi stavo vergognando.

Il terrore mi assalì quando salimmo sul vaporetto, fino a quel momento della mia vita ero stata con i piedi ben ancorati sulla terra, quando questo si staccò dal pontile e iniziò a ondeggiare mi prese per un attimo il panico. Teresa e suor Speranza risero di gusto divertite nel vedermi tutta rigida aggrappata a una sbarra metallica. Mi passò subito, anzi cominciai a divertirmi pure io, in quel preciso momento decisi che quella doveva essere la mia prima, e non certo ultima, vacanza.

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