Fio dei fiori Capitolo 24 – Capitolo precedente – Indice
“Cara Kate, era mia intenzione scriverti già da tempo ma, fino a oggi, ho sempre rimandato, non riuscivo a trovare argomentazioni al di fuori delle solite banalità anche se, la guerra in Vietnam non si può proprio definire una banalità. Oggi però è successo un fatto che devo assolutamente riferirti.
Da quando sono qui non sono mai uscito dalla base, per un sacco di motivi. Non sento, come tanti, l’esigenza di andar fuori per svagarmi, che qui significa principalmente bere e andare con qualche prostituta locale. Probabilmente non mi crederai ma, per me, lo svago consiste nel pensare alle mie due donne, te e la mamma.
Ho l’impressione, non solo mia, che qui non siamo i benvenuti, i salvatori, come qualcuno vuole farci credere e oggi, prima volta che metto piede fuori dalla base, ne ho avuto la prova. L’intenzione era quella di fare un giro esplorativo, per conoscere i posti che, finora avevo visto solo dall’alto. Nel villaggio appena fuori dalla base ho visto un gruppo di bambini giocare con dei vecchi copertoni quando, rasenti al suolo, sono passati tre dei nostri rombanti F100. Di colpo, i piccoli si sono messi a urlare abbandonando i loro giocattoli improvvisati sul ciglio della strada. Ho intuito che stavano chiamavano disperatamente le loro mamme purtroppo, queste erano impegnate a lavare i panni nel fiume. Mi è venuta la malsana idea di avvicinarmi a loro cercando in qualche modo di tranquillizzarli, per tutta risposta, si sono nascosti ancora più disperati dietro il più grande di loro che, con un bastone raccattato per terra, cercava di allontanarmi mentre, le urla degli altri crescevano di intensità. Alzando le mani, ho fatto qualche passo indietro; le mamme, sopraggiunte in quel momento, fulminandomi con lo sguardo, ripresero i piccoli sotto la loro protezione; nello stesso istante, mi sono trovato alle spalle alcuni uomini minacciosi.
Per fortuna, è sopraggiunta in quel momento la jeep della Polizia Militare, me ne stavo li talmente impietrito che dovettero caricarmi dentro quasi a forza per mettermi al sicuro. Dopo aver ascoltato distrattamente la lavata di capo di un mio collega che, una volta per tutte, mi metteva in guardia dai selvaggi del posto, mi sono diretto verso il mio alloggio per scriverti. Finché sono ancora vivi nella mia mente, ci sono alcuni pensieri che ho urgenza di condividere con te.
Ti voglio risparmiare lunghi discorsi antropologici ma, sappi che la mia passione per il volo c’è l’ho sin da bambino da quando, nei campi vicino a casa atterrò un biplano giallo. Erano i tempi dei circhi volanti e, questi aviatori detti barnstormers giravano per tutta l’America atterrando nei campi vicini alle fattorie, dopo il loro numero acrobatico, per qualche dollaro, offrivano agli spettatori la possibilità di fare un breve voletto che loro chiamavano battesimo dell’aria. Non so spiegarmi ancora il perché ma, in quell’istante desiderai ardentemente di staccare i piedi da terra, tra me e quel biplano fu un colpo di fulmine. Purtroppo, le mie tasche di bambino, erano ovviamente vuote e, tentai di muovere a compassione il barnstormer per scroccare un giro gratis; nulla da fare, rimediai solo una brevissima “seduta” sul posto di pilotaggio guadagnata a suon di spintoni.
Volutamente e con una certa dose di incoscienza, mi accovacciai in mezzo all’erba, pochi passi dietro quella fantastica macchina volante mentre si apprestava a decollare per l’ultima volta. Esile com’ero, lottai per non farmi spostare dal vento creato dall’elica al massimo numero di giri mentre, tutt’attorno, l’erba si appiattiva; assaporai l’odore del carburante e il ruggito del possente motore stellare. Mentre il biplano, ormai delle dimensioni di un puntino, svaniva all’orizzonte, giurai a me stesso che la cosa non sarebbe finita li. Tutto il resto è storia, si usa dire, ora però sai come è cominciata.
Fino a oggi, il mio F100 SUPERSABRE, così come gli altri caccia che ho “cavalcato”, erano semplicemente degli aerei, tali e quali a quel vecchio biplano. Mi hanno permesso, con il tempo sempre più rapidamente, di staccarmi da terra e andare a bucare le nuvole.
Devo essermi talmente staccato da terra, da non capire che, per chi stava a terra, il mio aereo, è solo una macchina di morte che semina terrore.
Devo essermi talmente staccato da terra, da non ricordare che tu, questa cosa, me la avevi già rinfacciata più volte.
Devo essermi talmente staccato da terra, da non accorgermi di tutte quelle volte che mi chiedevi di prenderti in braccio mentre io, ti rimandavo da tua madre.
Devo essermi talmente staccato da terra, da non aver mai dedicato un po’ del mio tempo a giocare con te.
Devo essermi talmente staccato da terra, da non correre mai in camera tua quando di notte piangevi.
Infine, anche se l’elenco potrebbe continuare, devo essermi talmente staccato da terra, da non ascoltarti mai quando suonavi. E’ strano, non ci crederai, ma solo ora mi stanno tornano in mente tutte le melodie che uscivano dalla tua chitarra.
Cosa ci faccio qui? Sto provando un senso di smarrimento e solitudine come mai finora mi è capitato, sudo al pensiero che domani dovrò tornare in missione, preferirei sparire nel nulla.
Ora proverai una certa soddisfazione nel sentirmi dire queste cose; io, che ho sempre eretto un muro quando mi facevi discorsi sulla pace e sul disarmo. Devo ammettere però che tutti i tuoi “sermoni” li ritenevo interessanti; mi piacevi perché in quello che dicevi c’era convinzione e determinazione. Però, dovevo fare la parte del padre o meglio, vista la mia educazione militare, del superiore che non accetta obiezioni.
Ho una gran voglia di tornare a casa, proprio non ce la faccio a continuare a volare, almeno non qui in Vietnam. Ho voglia di ritornare a volare in modo diverso e, soprattutto vero. Ogni tanto andavo in un piccolo campo di volo vicino ad Aviano; da quella pista in erba, con uno STINSON, un minuscolo aereo tutto giallo, decollavo spensierato e leggero verso altri campi in erba. Mi sentivo come quei barnstormers di cui ti parlavo prima, vedessi le facce dei contadini quando atterravo in uno dei loro campi. Una volta portai anche la mamma, per l’occasione si vestiva da vera aviatrice con un vistoso foulard in testa. Agli occhi dei poveri contadini dovevamo sembrare come due marziani scesi dal cielo, tua mamma poi, prese in braccio un bambino che si avvicinò e lo fece sedere a bordo.
So che non ne hai mai voluto sapere, per quante volte te l’ho chiesto, di volare con me ma, credimi, questo aereo ti conquisterà, ti farò provare cosa significhi volare veramente in piena libertà. Non so suonare la chitarra come te ma, ti assicuro, che come pilota sono un vero artista, vedrai che gli aerei non servono solo per fare la guerra.
Prima di partire ho concordato con mamma di elargirti una certa somma per i tuoi studi artistici che suppongo tu voglia intraprendere, che stupido, se sarai nel frattempo tornata, questo lo saprai già, ho sempre creduto in te!
Papà”
La brutta copia di quella lettera scritta a matita nel blocchetto per appunti, la lesse insieme a sua madre, gliela consegnò Chuck, un collega di suo padre, insieme agli altri effetti personali.
Chissà se era stato un triste presagio, quello che la indusse quella sera di metà novembre, a telefonare a casa per la prima volta. Da qualche giorno si sentiva stranamente agitata, gli prese il rimorso per non aver ancora dato sue notizie; così, non appena vide il simbolo giallo del telefono pubblico, si fiondò, con il cuore in gola, dentro quel bar in un vicoletto di Firenze, ci misero un bel po’ a passargli sua madre.
Del colonnello Edward J. Fairfield non fu mai ritrovato il corpo e nemmeno il relitto del suo rombante F100 SUPERSABRE. Fu abbattuto nel corso di un volo di ricognizione sopra un villaggio nord vietnamita, era praticamente impossibile cercarlo.
“In tutta sincerità”, le disse quell’ufficiale, “signorina Fairfield, non potevamo rischiare altri uomini per recuperare il corpo del colonnello. Da quello che hanno riferito gli altri membri della formazione, suo padre, dopo essere stato colpito, non ha più dato alcuna comunicazione radio. Inoltre, non hanno visto azionarsi il sedile eiettabile per cui, crediamo abbia preferito portare l’aereo lontano dal villaggio per non rischiare di precipitare in mezzo alle case, creando inutili vittime tra la popolazione civile.
Per questo considero il colonnello Fairfield un grande soldato, un grande eroe”,
“Si sbaglia maggiore”, lo interruppe sua mamma, fino a quel momento, rimasta in silenzio: “Eddie è stato semplicemente un uomo”.
Le due donne, mano nella mano, uscirono dalla casupola immersa nella nebbia. Nella base c’era un silenzio surreale. Quasi a voler rendere gli onori a suo padre, nessun aereo si alzava in volo.
“Sai, credo che tuo padre ora sia in paradiso. Pur essendo un militare, sono convinta che non abbia mai ucciso nessuno. Ah, dimenticavo, tu a queste cose non ci credi, vero?”.
“Io credo invece che abbia lottato per eliminare un po’ di inferno da questa terra”.
Le avevano promesso che ci sarebbe stata una solenne cerimonia ufficiale e che comunque, gli Stati Uniti d’America, non le avrebbero mai abbandonate ma, già in quel istante, cominciarono a sentirsi sole.
“Grazie Kate, ormai posso chiamarti con il tuo vero nome. Un mese fa, quando hai pubblicato il tuo ultimo lavoro mi si è di colpo illuminata la mente. Continuavo a cercare una cantante, non ho mai pensato a un compositore, credo che, il nostro amico, sarà contento lo stesso di sapere com’è andata.
E’ l’ 8 dicembre 2009 e qui a Providence, cari amici, piove parecchio. La vedo un po’ titubante, ma Kate non ci deluderà.
Dopo aver condiviso con i nostri ascoltatori il racconto della sua vita avremo il piacere di ascoltare, per la prima volta in pubblico, direttamente eseguito da lei: Eddie, quel brano scritto di getto quarantatré anni fa, grazie di cuore e buona continuazione del tuo viaggio”.
“Grazie Tim, un saluto anche a te Angelo, mio piccolo bambino”.