Kate

Fio dei fiori capitolo 22 – capitolo precedenteIndice


Providence, Rhode Island, Tuesday, december 8 2009

“Catherine Elizabeth Fairfield – When i was young – The unplugged collection”, Kate, tenendo fermo uno spigolo con l’indice, faceva roteare il CD sul tavolo. Le faceva strano vedere il suo vero nome stampato sulla copertina; scritto così per intero quasi nemmeno lei lo ricordava. Per un artista, lo pseudonimo con cui il mondo intero ti conosce, rischia di impossessarsi completamente di te, facendoti dimenticare la tua vera identità.

Kate non amava voltarsi indietro e pensare al passato, per cui, quando Ronald le propose di pubblicare i primi pezzi composti da giovane, facendoli eseguire direttamente a lei con la sua vecchia chitarra, si rifiutò categoricamente.

“Sa di vecchio, sa di addio”, protestò. Lui replicò che a sessantatré anni, era il momento di fare un bilancio della sua carriera artistica, non c’era niente di meglio che potesse regalare al suo pubblico e, anche a se stessa. Come se uscissero dal cilindro di un prestigiatore, quei quindici brani, avrebbero suscitato un’orda travolgente di emozioni.

Dopo lunghe e interminabili discussioni, alla fine cedette, oltre che il suo manager e amico di sempre, Ronald era uno dei due uomini veramente affidabili che aveva incontrato nella sua vita l’altro, anche se purtroppo l’aveva scoperto tardi, era suo padre.

La ribellione nei confronti suo padre, il colonnello dell’ U.S. Air Force, Edward J. Fairfield e quel maledetto fattaccio, la spinsero un afoso pomeriggio estivo del 1966 a allontanarsi frettolosamente, per stradine secondarie, dalla base di Aviano, fino a raggiungere la minuscola stazione di Fontanafredda. Doveva sbrigarsi a prendere il treno per Venezia che, proprio quel giorno, era maledettamente in ritardo. Non poteva rimanere li a aspettare, sarebbe stato il primo posto dove l’avrebbero cercata. Non c’era da illudersi che il biglietto lasciato sopra il tavolo in cucina, tranquillizzasse i suoi, suo padre avrebbe fatto uscire addirittura la Polizia Militare per riportare indietro quella irresponsabile ribelle di sua figlia.

Non c’era tempo per aspettare quel treno per cui, decise di mettersi a fare l’autostop sulla provinciale. Si fermò quasi subito un furgoncino, quell’omino buffo alla guida le ispirò fiducia e decise di salire. L’omino si chiamava Renato ed era un commerciante.

Da quando era a Aviano, aveva imparato un po’ l’italiano, come lingua le piaceva, finora però, non era mai stata a lungo a contatto con le persone del posto, all’inizio non fu facile intavolare un discorso con Renato.

Per prima cosa gli chiese perché si era fermato. Con stupore le rispose “per solidarietà fra musicisti”, aveva infatti notato la sua chitarra. Seppur lo fosse solo nel tempo libero si riteneva un musicista a tutti gli effetti, suonava la fisarmonica nelle balere e nelle sagre paesane. Secondo le sue teorie, di un musicista c’è sempre da fidarsi, non è una persona pericolosa e, se ne uscì con quella frase che divenne per lei la sintesi del suo credo personale: “la musica non ha mai ucciso nessuno”.

Il tempo, nel furgoncino di Renato, scorse veloce, parlarono tantissimo di musica, quel giorno conobbe quasi tutti i nomi dei cantanti e dei gruppi italiani in voga al momento.

Si fermarono in un paesino dove, secondo Renato, avrebbe trovato facilmente un passaggio per Venezia, lui purtroppo non andava in quella direzione. Entrarono in un bar dove usualmente si fermava spesso a fare una sosta, insistette per offrigli qualcosa come gesto di commiato. Si sarebbe ricordata per tutta la vita di quel pan e sopressa annaffiato con dell’ottimo vino rosso. Non erano cose da offrire a una donna, disse Renato, ma ad un amico si. Loro, complice la musica, lo erano appena diventati.

Malinconico e pieno di rimpianti, la saluto dicendole: “con la musica è difficile procurarsi da mangiare, ci riescono solo pochi fortunati, ti auguro con tutto il cuore di essere tra quelli”.

Quel paesino dove si trovava era bellissimo. Spinta dal desiderio di solitudine, abbandonò la strada principale e si infilò in una stradina sterrata in mezzo ai campi di granturco. Aveva bisogno di riflettere sulla sua fuga, le prese il senso di colpa nei confronti di sua madre, sapeva che avrebbe sofferto, era l’unica a non meritarlo. Illudersi che le scarne parole scritte nel biglietto, infilato in mezzo al libro che stava leggendo, servissero a spiegare tutto e a tranquillizzarla, era impensabile. Chissà, forse non l’aveva ancora visto, d’altro canto non poteva lasciarlo in vista, non voleva assolutamente che suo padre lo leggesse.

Si soffermò accanto a un capitello. Che strano vedere, solitaria in mezzo ai campi, quella statuetta della Madonna dentro un specie di chiesetta in miniatura curatissima e con dei fiori freschi.

“Certo che tuo figlio ha lasciato un segno nel mondo”, pur non essendo religiosa, prese a parlare spontaneamente con quella statuetta. “Un uomo ammazzato solo per aver parlato di amore, uguaglianza e pace. A me, invece, un uomo che ha giocato con l’amore, mi ha uccisa dentro. Come se non bastasse, ho un padre che fa della guerra il suo mestiere!”. Le idee su suo padre erano note ormai a mezzo mondo ma, di quella faccenda accennata all’inizio, la Madonnina fu la prima a saperlo.

“Ma dai, sono cose che si fanno e poi…, ti sei pure divertita”. Le avevano detto che, gli uomini, frasi del genere le usano spesso quando si tratta di darti il benservito. Si sentiva come uno di quei pesci agonizzanti che, da bambina, vedeva rigettare nel lago dai pescatori insoddisfatti dopo aver, senza tanta delicatezza, estratto l’amo insanguinato. Come se fosse bastato ributtarli in acqua affinché tornassero alla vita di sempre.

Lei, per Dan, il caporale Dan Bennett, era solo una scommessa vinta, quella di portarsi a letto una verginella figlia di un alto ufficiale. Forse era questa la missione, che avrebbero dovuto svolgere in Vietnam dei militari come lui e suo padre, ammazzare le donne, dentro e fuori. L’aveva attirata a se facendo leva sul suo punto debole, la solitudine. A causa soprattutto del lavoro di suo padre, ne aveva sempre sofferto. I continui spostamenti a cui la famiglia era sottoposta, non le avevano mai permesso di coltivare rapporti duraturi con le persone, l’unica persona che, per fortuna, aveva stabilmente vicino, era la madre, troppo poco.

Troppo bello che un uomo si fosse accorto finalmente di lei facendola sentire come su un piedistallo dedicandole mille attenzioni. Troppo bello che, quell’uomo, al contrario di altre persone, valorizzasse il suo aspetto “acqua e sapone” e la sua passione per la musica.

I fogli su cui aveva composto quel pezzo scritto per lui finirono in mille pezzi dentro una pozzanghera, li aveva poi successivamente calpestati fino a riempirsi di fango dalla testa ai piedi. Lo stesso giorno, in preda a un raptus, stava per distruggere la chitarra ma, qualcosa di misterioso la fermò, rimaneva pur sempre la sua compagna fedele, quel qualcosa di misterioso le fece capire che quella chitarra le avrebbe permesso di sfogare la sua rabbia, di confortarla nella tristezza e, se mai sarebbe tornata, di esternare la sua felicità. Quel giorno prese la decisione di partire.

Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati. Dove andiamo? Non lo so, ma dobbiamo andare”. Così era scritto in quel libro che, si era portata di nascosto dall’America. Se avessero trovato quel libro all’interno della base, le avrebbero sicuramente fatto un sacco di domande. Potevano tollerare che la gente si drogasse ma non che leggesse un libro del genere, roba da comunisti.

La necessità di andare, il viaggio che, oltre a conoscenza, si fa esigenza, unica via di fuga da quella situazione.

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