La nostra Woodstock

Fio dei fiori capitolo 20 – Capitolo precedenteIndice


Non credo di aver sentito parlare tanto di Vietnam come in quei giorni, d’altronde, tra il festival di Woodstock e il Vietnam c’è sempre stato un legame particolare. Anche il nostro James era un reduce, notammo solo il giorno dopo la protesi alla gamba; ”la mia storia non è diversa da quella di tanti altri”, disse per minimizzare la cosa.

In effetti, purtroppo, era la triste realtà. Uno fra i tanti sprovveduti ragazzi ammaliati dagli arruolatori dell’esercito. Come nel caso di James, la maggior parte di loro, proveniva dalle immense zone rurali degli States, venivano mandati in guerra allo sbaraglio facendogli credere che sarebbero diventati degli eroi. La fortuna, chiamiamola così, volle che, appena giunto al fronte, si beccò una sventagliata di proiettili. Fu rispedito al mittente imbottito di psicofarmaci e senza una gamba.

La vera fortuna per lui fu quella di abitare a Callicoon, una ventina di miglia da qui. Il 14 agosto del ’69, notò un gran trambusto sulla strada che portava a White Lake, mosso dalla curiosità, andò a vedere che cavolo stava succedendo. Non credeva ai suoi occhi, migliaia di persone si stavano dirigendo sulla collina, si sentì subito, però, un pesce fuor d’acqua. Tutta quella gente sembrava molto diversa da lui, forse perché erano felici. Per quanto lo riguardava, la felicità l’aveva abbandonato da parecchio tempo, il Vietnam gli aveva dato il colpo di grazia, lo aveva completamente svuotato di tutte le emozioni positive inoltre, lo stava affliggendo uno dei più grandi mali, la solitudine. Non sapeva proprio che fare in mezzo a quella accozzaglia di capelloni, tanto valeva tornare a casa.

“Hey amico, cosa ti è successo?”, bastò quella domanda per farlo tornare sui suoi passi. Quel 14 agosto del ’69, qualcuno iniziò finalmente ad ascoltarlo, a fargli capire che ci sarebbe stato un futuro; tra questi anche Tim, è li che è iniziata la loro storia.

Il 18 agosto del ’69, la zona ne uscì alquanto devastata. A noi invece, quarant’anni dopo, offrì uno spettacolo incantevole. Il grosso della gente se ne era andata ordinatamente, quell’ultima sera regnava un silenzio surreale, solo il vento riusciva saltuariamente a contrastarlo facendo ondeggiare il mare d’erba. Guardai la scia di un aereo bucare una delle poche nuvole presenti in quel cielo terso. L’indomani sarei volato via per tornare alla triste routine quotidiana, era il momento di tirare le somme.

Non ho idea di quanti kilometri o meglio, miglia, abbiamo fatto in sella alle due Harley. Su una, io e James, e, incredibile, sull’altra, ovvero quella del generoso Tim che si sacrificò in nome della nostra consolidata amicizia, Sega con Bitol alla guida. Abbiamo però scoperto un’America insolita grande e piccola nello stesso tempo.

Non so quante pagine abbia scritto Sega nel suo misterioso Moleskine, non ha mai voluto mostrarcelo. Non so dirvi cosa stesse tramando il Bitol con tutti quei fricchettoni ai quali continuava a mollare poderose strette di mano. So che entrambi sono tornati a casa con delle idee ben precise nella testa.

Non mi ricordo tutti i nomi delle persone che abbiamo conosciuto e, soprattutto, a dispetto della nostra indole contadin-introversa, abbracciato. So che avevano tutti una cosa in comune, credevano. Credevano in un ideale, in un progetto o in un Dio.

Ma, soprattutto, non sapevo cosa avremmo potuto raccontare al Gioni. Purtroppo in quanto a pusarse niente da fare, l’avremo deluso e ci avrebbe per sempre radiato dall’albo degli amici, amen. Ho avuto però modo di riflettere e capire meglio la differenza tra pusarse e amore che, tra le tre parole magiche di Woodstock ’69, rimane, per me, sempre quella più difficile da dire.

Non sono riuscito a sapere chi poteva essere Kate però, ho capito meglio chi erano Adriano e Armando.

“Come on Muls, it’s time to say goodbye”. Una rossa palla di fuoco si era adagiata dietro le colline, James voleva che ci salutassimo ufficialmente li sopra, accanto a quella specie di lapide che ricorda Woodstock ’69. C’era lo stesso cielo stellato dell’agosto ’81, un cenno di intesa con il Bitol, dovevamo cantare la stessa canzone:

How many roads must a man walk down
Before you call him a man?
How many seas must a white dove sail
Before she sleeps in the sand?
Yes, and how many times must the cannon balls fly
Before they’re forever banned?

The answer, my friend, is blowin’ in the wind
The answer is blowin’ in the wind.

Yes, and how many years can a mountain exist
Before it is washed to the sea?
Yes, and how many years can some people exist
Before they’re allowed to be free?
Yes, and how many times can a man turn his head
And pretend that he just doesn’t see?

The answer, my friend, is blowin’ in the wind
The answer is blowin’ in the wind.

Yes, and how many times must a man look up
Before he can see the sky?
Yes, and how many ears must one man have
Before he can hear people cry?
Yes, and how many deaths will it take ‘til he knows
That too many people have died?

The answer, my friend, is blowin’ in the wind
The answer is blowin’ in the wind.


Quante strade deve percorrere un uomo
prima che lo si possa chiamare uomo?
Quanti mari deve sorvolare una colomba bianca
prima che possa riposare nella sabbia?
E quante volte le palle di cannone dovranno volare
prima che siano per sempre bandite?

La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento
La risposta sta soffiando nel vento

Quanti anni può esistere una montagna
prima di venire lavata dal mare?
Quanti anni devono vivere alcune persone
prima che possano essere finalmente libere?
E quante volte un uomo può voltare la testa
fingendo di non vedere?

La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento
La risposta sta soffiando nel vento

Quante volte un uomo deve guardare verso l’alto
prima che riesca a vedere il cielo?
E quante orecchie deve avere un uomo
prima che possa sentire la gente piangere?
E quante morti ci vorranno affinché egli sappia
che troppe persone sono morte?

La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento
La risposta sta soffiando nel vento

Non ho avuto le risposte che cercavo ma, quell’ultima sera in cima alla collina, capii che forse erano Blowin’ In The Wind.

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