Peace & Love

Fio dei fiori capitolo 19 – Capitolo precedenteIndice


Fortunatamente stava per esibirsi Richie Havens che, almeno per quanto mi riguarda, mi tolse dall’imbarazzo. Anche se era un’occasione irripetibile, non avevo voglia di andarci, i “compiti per casa” di Tim mi avevano provocato una certa inquietudine interiore.

Sapevo bene quello che dovevo fare: stare da solo e camminare velocemente. Terapia ormai collaudata da anni, messa in atto la prima volta ai tempi delle superiori, quando quello stronzo del Bellè tagliò fuori volutamente noi tre dalla festa dell’ultimo dell’anno. Incredibile, sono passati più di trent’anni e sono ancora qui che rodo dalla rabbia, che trauma.

Il cielo terso e la luce del tardo pomeriggio rendevano ancora più magico e rilassante il paesaggio rurale, man mano che mi allontanavo dall’accampamento, il rumore della folla veniva rimpiazzato dal vento. Per me, che ho inscritto nel DNA l’antico legame con la campagna, uno spettacolo cento volte più bello dei grattacieli di New York. L’erba, gli alberi e il profumo nell’aria, nonostante l’immensa distanza, erano gli stessi di casa mia. Diverso invece l’orizzonte, immenso ma non piatto come la pianura del Piave, dolcissime colline verdi lo movimentavano, sui cocuzzoli, isolate fattorie, dai colori vivaci, con accanto una sorta di mulino a vento.

Che bello, quello che avevo davanti, era lo stesso paesaggio che attraversava zio Paperino a bordo della mitica 313, quando portava i nipotini in vacanza alla fattoria di nonna Papera. A dispetto dei consigli della maestra, i fumetti di Topolino erano la mia unica lettura estiva, momento topico in cui navigavo a lungo con la fantasia, emulando le avventure delle Giovani Marmotte. Mi divertivo a fare l’esploratore, ovviamente nei paraggi di casa e con ciò che avevo a disposizione, il pioppeto fungeva da bosco in cui costruivo dei rifugi. Purtroppo ricordo anche la spropositata razione di botte che ricevetti da Joani, solo per il fatto di aver usato dei paletti in legno che a lui servivano per i pomodori; al pensiero mi bruciava ancora il culo. La triste parentesi durò poco, riaffiorò un altro bellissimo ricordo: anche noi tre, sulla soglia degli anni 80, vivemmo la nostra Woodstock.

Appena fuori del nostro paesello scavarono un canale scolmatore con relativo bacino di contenimento; la terra estratta venne depositata provvisoriamente sulla riva del bacino. Come sempre succede, le cose provvisorie alla fine restano definitive, poco male però; noi villici locali, in pochi mesi, ci ritrovammo con una pittoresca collinetta e un pescoso laghetto a due passi da casa. La collina, grazie alla buona terra razza Piave, non ci mise molto a rinverdirsi mentre, il continuo calpestio tracciò il sentiero per salirci. Un sant’uomo, probabilmente un ambientalista ante litteram, sulla sommità costruì tre panchine e ci piantò alcuni alberi. Quel pezzo di terra, fortunatamente sottratto all’agricoltura, divenne un piccolo angolo di paradiso. Oggi di quel posto, sopranominato “el monteo” in onore della vicina zona collinare, non è rimasto più nulla, “el mal dea piera”, come viene definita da noi la smania di edificare a tutti i costi, ha preso il sopravvento. Se cercate la mitica collina vi troverete solo un agglomerato di anonime villette a schiera.

Ogni estate era contraddistinta da una moda. C’era l’estate delle palline di vetro, quella del Subbuteo o, per i più poveri, del calcio Atlantic, quella delle mitiche palle clic-clac che, a causa del loro rumore, facevano puntualmente girare altre palle, leggi quelle del Joani. Quella del 1981 fu speciale, iniziò tutto a metà giugno. Un pomeriggio sul tardi il Bitol, chitarra in spalla, ci propose di seguirlo in cima al monteo per farci sentire alcuni pezzi. Quel micro concerto, alla fine, si trasformò in un appuntamento quotidiano.

Li, in cima alla collina, ispirati dai concertini del Bitol, all’epoca ispirato dai cantautori impegnati, nacquero i nostri primi discorsi seri. A causa dell’indottrinamento cattolico ricevuto, evitavamo l’argomento sesso concentrandoci piuttosto sui sogni per il futuro. Man mano che il nostro sodalizio su rafforzava, aumentava pari passo la quantità di tempo passata la su. Più di qualche volta cenammo assieme, portando l’attrezzatura da pic-nic e le prelibatezze fornite da casa Sega.

Il culmine però lo raggiungemmo una sera di agosto quando, dopo aver ottenuto con una certa fatica la concessione da chi, a vari titoli, ci aveva in tutela, vi piantammo una tenda canadese a tre posti per passarci la notte: non dormimmo neanche cinque minuti ma fu un esperienza indimenticabile. Una interminabile notte, sotto un cielo stellato come finora non avevamo mai visto, passata a cantare, parlare e soprattutto ridere come matti, sino allo sfinimento. Ricordo pure che a un certo punto dissi: “ragazzi, chissà fra trent’anni cosa staremo facendo .

Non erano passati proprio trent’anni esatti ma, ironia del destino, mi trovavo ancora sulla sommità di una collina e, mi stavo chiedendo cosa ci stavo facendo in quel posto.

I pensieri saltavano come i canali del vecchio televisore in bianco e nero che avevamo in casa. Non facevo in tempo a focalizzarmi su un ragionamento che subito mi trovavo a pensare a qualcos’altro. Pensavo al senso della mia vita e, una frazione di secondo dopo, al telefonino ultima generazione che mi ero dimenticato di acquistare a New York.

Mi accorsi di aver camminato per un bel pezzo, riuscivo a scorgere il mitico Filppini Pond, ovvero il laghetto dove al tempo gli hippies facevano il bagno nudi; era pieno di gente laggiù, stavano sicuramente rievocando i bei tempi. In confronto a loro mi sentivo vuoto e inutile, senza uno straccio di ideale o progetto.

Pace, amore e musica. Come un mantra ripetevo le tre parole magiche, quella centrale era la più dura da dire. Cercare l’uomo nuovo che è in te, bella roba, mi sembrava di averlo già sentito dai preti, è proprio vero che nessuno inventa niente.

A malapena riuscivo a essere consapevole di chi ero: uno fra tanti miliardi di uomini, tutti uguali, che pensa solo ai cazzi suoi. Altro che pace, amore e musica, nella mia testa c’erano, in ordine: figa, schei e magnar.

Per mia fortuna però, il morale un attimo prima di schiantarsi a terra, come se fosse un aereo acrobatico, miracolosamente si rialza; è ciò che accadde al mio ritorno.

Il Bitol, chitarra vera in mano, chissà com’era riuscito a procurarsela, si stava esibendo davanti a una piccola folla di fricchettoni vintage over ‘60. A occhio, togliendo le mitiche feste de l’Unità, dove la gente era lì per mangiare poenta e coste, non certo per ascoltare lui, si trattava del “concerto” con la maggior affluenza di pubblico mai registrata sinora. Era proprio il suo momento magico, mi diedi subito all’incitamento del pubblico, provocai applausi partigiani al grido di “wonderful!”. Non mi trattenni inoltre dal gridare “dai che stasera ti te pusi !” tanto il nostro slang non lo conosceva nessuno, o quasi.

“Venite dal Veneto vero?”, mi trovai dietro le spalle un tipo anzianotto ma con il fisico atletico. Bermuda, maglietta e cappellino con il frontino, il tipico aspetto di un membro della CIA in pensione.

“Ciao sono Chuck, capisco un poco il vostro linguaggio locale come si dice dialetto, vero? Ho passato parecchi anni alla base di Aviano in Friuli”. “Cavolo!”, esclamai mentre cercavo di riprendermi, “è a cinquanta kilometri da casa nostra”. “Incredible!”, disse il forever young, il persempregiovane come lo avevo già prontamente sopranominato, la parlata italiana con l’accento americano lo rendeva un personaggio da cinema.

“So dov’è il tuo paese, non hai idea di quante volte vi ho bombardato!”, il tipo era già pieno di birra strano però, l’alito non puzzava. “Scusami”, disse vedendomi visibilmente interdetto, “ero un pilota di caccia e quella zona, un triangolo tra il Piave, Tagliamento e Isonzo era la nostra area per le esercitazioni. Pensa, facevamo finta di bombardare i campanili delle chiese. Sono passati più di quarant’anni, ad occhio la tua età, da quando col mio F100 SUPERSABRE, passavo a bassa quota sopra i vostri piccoli paesi”.

Di colpo si fece serio e scuro in volto. “Quarant’anni fa, rispetto a questa gente, stavo dall’altra parte della barricata, un impavido giovane ufficiale pilota. Nel 1966 la mia squadriglia fu mandata in Vietnam, un esperienza che voglio dimenticare, non sempre però ce la faccio, ho ancora gli incubi. Continuo a sognare il colonnello, il mio comandante, ricordo la scia di fumo del suo aereo mentre, colpito, precipitava. Ha rinunciato a lanciarsi, ha preferito morire portando l’aereo distante facendo in modo che non cadesse nel villaggio. Quando tornai ad Aviano, incontrai sua figlia, avevo l’incarico di consegnarle una lettera e gli effetti personali di suo padre.

Passammo l’intera giornata assieme. Lei, nonostante quello che era successo era particolarmente serena, mentre io stavo attraversando il periodo più buio della mia vita. Il Vietnam mi aveva svuotato e reso arido ma, quel giorno, quando la sua mano mi accarezzò il volto, rifiorii. Il suo sorriso e quegli occhi azzurri come il mare mi fecero tornare la voglia di vivere.

Dall’America giungevano venti di cambiamento, il concerto di Woodstock, sarebbe stato un evento epocale che avrebbe cambiato il cuore di molte persone, lei non voleva mancare.

Di li a pochi mesi, tornai in America e firmai il congedo poi, d’istinto, presi zaino e sacco a pelo. Abitavo a Portland nell’Oregon; attraversai l’America in autostop per essere qui il 15 agosto del ’69. Mi misi in viaggio con l’illusione di rivederla per dirle che aveva cambiato la mia vita e che, mi ero innamorato di lei. Ogni anno torno qui con la stessa speranza. Scusami se per caso ti ho annoiato con la mia storia, peace & love my friend”.

Capitolo successivo

Home Racconti

Pubblicato da