New York e la bici

Fio dei fiori capitolo 17 – Capitolo precedente –  Indice


La pioggia batteva forte sulla vetrata, lasciava comunque intravvedere molto bene la skyline dei grattacieli. Non avevo proprio nessuna intenzione di abbandonare il mio comodo giaciglio, chi me lo faceva fare, quella stanza tutta per me era una figata. Super tecnologica, tutto nei toni del bianco, molto cool come direbbero loro. Solo ora riuscivo ad apprezzarla, ieri ero talmente stanco che riuscii a stento a fare una veloce capatina in bagno. Senza neppure mettermi il pigiama, mi infilai sotto le lenzuola con le tende lasciate aperte e il rumore della pioggia a coccolarmi.

Arrivammo al “Kennedy” che sembravamo degli zoombies, era andato in palla anche il fido Sega, meno male che la cara Verena, da scafata frequentatrice del posto, ci scortò attraverso i lunghissimi corridoi e ci fece da assistente per passare gli sfinenti controlli. Da vera mamma premurosa si assicurò che avessimo capito alla lettera le istruzioni per raggiungere l’albergo.

Il suo interminabile e forte abbraccio mi lasciò paralizzato. Abbandonato a lei, con il groppo in gola, cercavo di nascondere le lacrime, celando il viso tra i suoi riccioli mentre, il suo profumo si mescolava alla mia puzza di sudore.

“Tutti uguali voi uomini insomma, se dovete piangere, piangete, senza tante storie!”, aggiunse poi, “ricordati delle cose che ti ho detto”. Ciao Verena, che bello averti incontrata, ricorderò per sempre il suono delle kappa e le acca del tuo italiano ma, soprattutto, il delicato bacio sulla bocca.

Da sfegatato per la tecnologia, iniziai a trafficare con tutto il quel ben di Dio che avevo in camera. Notai un “relax & meditation music” tra i canali audio tematici a disposizione, pigiai il tasto OK del telecomando e via, tra piacevoli brividi, mi lasciai scivolare di nuovo sotto le linde lenzuola.

Fuori, si percepiva l’ululato delle sirene della polizia americana, proprio come nei film. Inevitabile il pensiero a casa, il figlio di Joani Nosea pronto ad assaggiare la Grande Mela, che goduria. Non osavo pensare alla reazione di Gino e Teresa, se mi avessero visto in quel lussuoso lettone di quell’albergo da siori.

Il mio sguardo cadde sui due lindi e profumati accappatoi bianchi ripiegati ai piedi del letto. Che bello sarebbe stato condividere quel lettone con Verena; stranamente non mi lasciai andare alle solite fantasie erotiche, il sentimento che provavo era più profondo del semplice desiderio, quella ragazza mi aveva proprio incocaio di brutto. Mi buttai allora su Minnie.

Stetti un’eternità sotto quella doccia con l’idromassaggio, l’acqua calda scorreva a fiumi tanto, era tutto pagato; non sentii ovviamente i due, che stavano quasi buttando giù la porta. Avevo il mio bel pensare mentre quei piacevoli getti mi massaggiavano il corpo, la prima cosa era che tornati a casa mi sarei comprato una doccia uguale, e poi, per placare i sensi di colpa inculcati dalla dottrina cattolica, pensai alle migliaia di persone che avevano trombato, de sfroso, nel letto in cui mi ero lasciato andare, per l’ennesima volta, a quella pratica che, secondo i preti, ti rende cieco. Mi eccitai, inoltre, pensando a cosa avrei potuto comprarmi una volta usciti per strada.

Credo sia tipico dell’italiano che va a New York, credere di comprare qualcosa, specie di tecnologico, a un prezzo infinitamente inferiore che in Italia. Io e Sega cademmo subito nella trappola, il Bitol si salvò solo grazie al fatto che aveva esaurito quasi tutto il suo budget nell’acquisto del famigerato chitarrino. Quella mattina, saranno passate si e no due ore da quando le nostre suole avevano iniziato a consumarsi sui marciapiedi della grande mela, che noi due polli, come da copione, uscimmo con il tipico sorriso imbecille da un megastore nella 9th Avenue, con due buste zeppe di merce. Non appena svoltato l’angolo e trovato un posto appartato, con la stessa furia che hanno i drogati in crisi di astinenza, aprimmo gli imballi, il virus del “vuiancamì” aveva appena trovato terreno fertile anche oltre oceano. Quei primi costosissimi acquisti, videocamera e macchina fotografica, almeno furono sfruttati a dovere.

Come turisti fummo un po’ più originali della media. All’ingresso di Central Park, luogo dove su pressione del Bitol bisognava fiondarsi per prima, notai il cartello “Discover Central Park by bike”, che figo, la cosa ci stuzzicò. Scoprimmo che ci sarebbe costato quasi come noleggiare un’auto ma, ne valeva sicuramente la pena. Dopo la nottata piovosa, la giornata era tersa, andare alla scoperta della metropoli in bicicletta, sarebbe stata un esperienza unica e originale. Perdemmo quasi un’ora per scegliere il tipo di bici e a compilare alla cieca i relativi moduli dove, ci sarebbe potuto tranquillamente essere scritto che, ci impegnavamo a versare un milione di dollari ciascuno in caso di reso del mezzo con un leggero striscio.

“Have a nice day guys”, ci disse con un sorriso da quaranta pollici, el toso addetto alla consegna dei potenti mezzi; ebbi l’impressione che ci stesse prendendo per il culo. “El n’a dit recioni”, esclamai risentito, a causa della mia ignoranza linguistica. Ridicolamente bardati con caschetto e pettorina a alta visibilità sulla quale era stampata, a caratteri cubitali, la pubblicità del noleggiatore, tutti eccitati e, all’ennesimo grido di: “dai che ‘ndemo”, iniziammo la nostra avventura ciclistica per le strade di New York.

Incredibile, fino a quel giorno avevamo pedalato esclusivamente per trosi di campagna, mentre ora sfrecciavamo per le gigantesche avenue con il naso all’insù e il sorriso ebete del turista soddisfatto.

“Parem quasi veri”, urlò da dietro il Bitol alludendo al fatto che sembravamo dei fighetti, come quelli che si vedono in televisione quando mostrano le immagini di New York. Sega, nel frattempo, stava mettendo seriamente a repentaglio la sua vita riprendendo l’impresa con quella maledetta videocamera che, ormai era diventata la protesi della sua mano.

Nonostante il rumore assordante del traffico, si udivano le nostre grida di felicità, rigorosamente nello slang del basso Piave, ci faceva piacere vedere che, ogni tanto, qualcuno si girava a guardarci divertito, specie se si trattava di qualche bel montareo.

In bici a New York, detti già il titolo a quelle centinaia di scatti, tutti uguali che, alla stregua del peggior turista nipponico, freneticamente continuavo a fare. Il mio narcisismo era alle stelle, in continuazione, rischiando il tamponamento, inchiodavo per passare la macchina a uno dei due soci, perché mi ritraesse in sella, nelle pose più svariate, con lo sfondo dei grattacieli.

La vecia mora, ovvero la mia vecchia bici, avrei voluto essere in sella a lei, come me, anche lei si meritava quel felice momento di riscatto. La vecia mora, prima della macchina, comprata usata a rate non appena ebbi la certezza di un lavoro duraturo, fu il mio unico mezzo di locomozione. Antichissima, di quelle ancora con i freni a bacchetta, la ebbi in eredità da un “poro” zio. Non era certamente il massimo ma, è stata una fida compagna per non so quanti anni. La consideravo alla pari di un cavallo nel senso che, con lei ci parlavo pure, specie nei momenti in cui mi sentivo giù di corda.

Anche negli orari più assurdi, quando ero triste o incazzato, montavo in sella alla vecia mora, la chiamavo così in quanto tutta nera, e iniziavo a pedalare a più non posso a tutta velocità per i trosi, fino a quando non mi scoppiava il cuore. Notte, giorno, caldo, freddo, afa, nebbia, pioggia, sole, neve non importava, mi era sufficiente passare un po’ di tempo in sella parlandoci assieme tanto, eravamo soli io e lei, nessuno mi avrebbe preso per matto. Solitario pedalavo immerso nella scenografica campagna del basso Piave che, regalava fresche notti estive rallegrate dal canto dei grilli, folate di vendemmia autunnali, profumo dell’erba appena tagliata sotto il primo timido tepore primaverile e la silenziosa e ovattata atmosfera della nebbia invernale. Avrei voluto essere in sella a lei, quando, come tre cavalieri sulle nostre City Bikes, varcammo i confini di Central Park.

“Centoquattro dollari e ottanta”, continuava a ripetere all’infinito il Bitol, ovvero la cifra che avevano guadagnato lui e il suo nuovo socio, il chitarrino, durante il loro personalissimo Concert in Central Park. Si era messo a strimpellare durante la pausa pranzo quando, una piccola folla gli si fece attorno. Dopo un po’, un tale in giacca e cravatta gli mise gentilmente una moneta dentro il casco rovesciato in mezzo all’erba, altri seguirono.

“Eo savevo mi”, toccava a lui ora pronunciare quella frase, ovviamente, per la prima volta nella vita, in senso ottimistico. Agitando il casco al fine di farci sentire quanto era pieno, iniziò a farci una paternale per tutte le perplessità che avevamo avuto riguardo l’acquisto del chitarrino. A quel punto potevamo solo star zitti, erano i primi soldi guadagnati con ciò che più nella vita amava fare, non lo diedi a vedere, ma ero commosso. Per quasi un ora, la star, non ci cagò manco di striscio, impegnato com’era, in appassionati confronti con passanti e “colleghi” d’oltreoceano. Pagò lui la cena, in un fast food dalle dubbie norme igieniche, pazienza, non osavamo di certo obiettare.

Sembrava già passata un eternità da quando eravamo partiti, l’oceano si era frapposto tra me e le mie preoccupazioni contribuendo a tenerle lontane. Nei due giorni di intense pedalate, respirai a pieni polmoni, oltre allo smog, quel senso di libertà che ti dava la grande mela. Ci sentimmo anche noi, come a volte si definiscono gli americani, sons of liberty, figli della libertà, lo testimonia la foto che ritrae noi tre, con le dita a “V”, e la famosa statua sullo sfondo.

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