El nadal del Mauri

SOLARADIO, la radio da leggere – Capitolo 2 – Capitolo precedenteIndice


Non era affatto stato semplice spegnere tutto dopo essere andati in onda per l’ultima volta. Con il groppo in gola e gli occhi lucidi, senza guardarci, gli uomini si vergognano a farsi vedere commossi, scendemmo le scale in silenziosa processione, destinazione l’unico bar del quartiere aperto in quella nebbiosa domenica. Un frugale spritz di commiato, non c’era tempo per altro, io e Pasquetta dovevamo macinare un tot di kilometri per tornare a casa.

“Ve go scoltà”, così ha esordito quando è piombato nel bar, mentre, dietro di lui, una ragazzina di colore, iniziò a squadrare noi cinque dalla testa ai piedi, neanche fossimo marziani. Bojaissamorti, nonostante gli anni, sembrava ancora un ragazzo. A uno sbirro come me, uno come il Mauri, non può contarghea di essere capitato lì per puro caso. Poteva almeno avere la decenza di usare una frase diversa da quella di quarant’anni fa.

Non posso fare a meno di parlarvi del Mauri, senza raccontarvi del suo garage. Oggi si fa un gran parlare di incubatori, luoghi misteriosi dove la gente sviluppa idee e crea progetti; ci si riempie la bocca con termini come start-up, business innovation e via discorrendo. Quarant’anni fa, nulla di tutto questo, c’erano però i garage.

Servivano a tutto tranne che a tenerci la macchina, anche perché, non tutti ce l’avevano. Il garage era soprattutto punto di ritrovo, deposito di sogni, laboratorio, discoteca, ludoteca, palestra, rifugio anti-genitore che ti voleva pestare a sangue dopo un brutto voto a scuola, sala prove, officina, deposito alimentare per far fronte all’imminente avvento della terza guerra mondiale, luogo in cui stare fuori dalle sgrinfie della moglie per cazzeggiare in assoluta libertà, mi fermo qui, l’elenco sarebbe lunghissimo.

Quello del Mauri, ovvero Maurizio detto Andersen, per via delle storie che raccontava, era dipinto di rosso vivo, portone incluso, alla faccia dei regolamenti condominiali. Per essere un garage, l’arredamento era un po’ particolare: luci colorate, divanetto, e, appesi alle pareti, dei poster che vi lascio immaginare. In un angolo c’era anche una brandina pieghevole, non l’ho mai vista aperta ma, a detta di alcuni testimoni oculari, era tappezzata di strane macchie.

Quei dieci metri quadrati erano di suo uso esclusivo, credo più per necessità derivanti dalla situazione familiare che per fortuna. Mauri parlava di tutto con tutti, unico argomento tabù: la sua famiglia. Nel quartiere comunque la privacy era, e forse lo è ancora, un optional, per cui, tutti in realtà sapevano e spesso, ci mettevano ea zonta. Pure io, non mi vergogno ad ammetterlo, sono sempre stato un esperto nel cogliere il pettegolezzo e le dicerie. Ironia del destino, nel mio ambito professionale sono un profiler ovvero, in volgo veneziano, un tajatabari.

In realtà il triste quadretto della sua famiglia facevi presto a farlo, padre lavoratore saltuario a Porto Marghera, alcolizzato e sempre pronto ad menare le mani. La madre, come se non bastasse, era una alla quale mancava un boio ovvero, non era molto a posto con la testa, Ermanno, il fratello maggiore, praticamente volatilizzato.

Non appena chiudeva il basculante, lasciando fuori il monotono e problematico mondo esterno, ti ritrovavi immerso in un atmosfera peccaminosa, pareva di essere al night. Mauri iniziava col tirare fuori dai calzini il pacchetto di sigarette, nulla di illegale, solo puzzolentissime Camel; poi, con aria da sfida lanciava a noi sbarbai, a proposito, preciso che aveva solo due anni più di me, gli ultimi arrivi in fatto di riviste porno, giusto perché ci facessimo una cultura a riguardo. In effetti, bisogna ammettere che, le “lezioni” nel garage del Mauri, sono state le uniche di educazione sessuale impartiteci in quegli anni.

Più interessanti, rispetto ai giornaletti porno, erano i suoi racconti. Con dovizia di particolari, narrava delle sue performances di alto livello, durante gli incontri erotici con “quea” e “ ‘staltra”. Pur non disponendo degli attuali mezzi tecnologici, il Mauri, antesignano della diffamazione a mezzo social network , diffondeva su larga scala, notizie false e tendenziose, riguardo la reputazione di alcune donzelle. La maggior parte di noi sapeva che Andersen, le contava che e pareva vere, ciò nonostante, c’era sempre qualche credulone assatanato che si rivolgeva a “quea” e “ ‘staltra” chiedendogli esplicitamente di caearghea. A differenza di oggi, “quea” e “ ‘staltra”, delle ruspanti ragazze, senza ricorrere ai media, ripagavano le richieste sull’unghia, nel vero senso della parola. Il malcapitato, nella migliore delle ipotesi, ne usciva con cinque sfregi da entrambi i lati del volto, se non bastava, veniva colpito con un calcio ben assestato la, dove non batte mai il sole, in questo modo, erano certe di placare la tempesta ormonale.

Non ho mai visto Mauri Andersen fare a botte, la sua parola era un’arma tagliente e la usava con chi gli stava maggiormente sulle palle. Con la fine arte della persuasione, in più occasioni, mi salvò dagli attacchi dei soliti bulli dei paeassoni , che goduria nel vederli mocarsea con la coda fra le gambe, mentre io, potevo smetterla di cagarmi addosso.

Fin dalle prime ore di vita della radio, annunciammo di essere alla ricerca di collaboratori, ovviamente volontari; mai avremmo immaginato che il primo sarebbe stato lui. Fermò me e il Pasquetta sotto i portici del palazzo di Tito; “Ve go scoltà”, disse secco. “E aeora?”, rispondemmo all’unisono noi due. Il tipo era più che mai determinato a far parte dei nostri, conoscendo il personaggio ci guardammo alquanto perplessi e preoccupati.

Vabbè che eravamo pionieri delle radio libere ma, mandare in onda un porno show radiofonico, anche se, visto il gran numero di potenziali bavosi ascoltatori, il successo sarebbe stato praticamente assicurato, ci pareva troppo e poi, a quei tempi, c’era già Cicciolina che faceva gran parlare di sé. Piegato in due dalle risate, dovetti tenermi aggrappato a una colonna, mentre Pasquetta mi snocciolava, in dialetto, i probabili titoli del programma.

DJ Andersen, questo era il suo nome d’arte, invece, sorprese tutti. Raccontava storie, non quelle che immaginavamo, bensì magnifiche storie frutto della sua fantasia.

La sua abilità nel rendere verosimili i racconti era unica, esordiva sempre con frasi del tipo “ho sentito dire che”, “mi hanno raccontato che”. Pensate, non avevamo i mezzi per ricevere le telefonate in diretta che, allora, andavano di moda, ma lui, falsando la voce, o, usando delle audiocassette, riusciva a farlo credere.

Memorabile quella volta che raccontò del bottino di guerra, sepolto da un gruppo di soldati tedeschi in fuga, accanto a un albero solitario nei pressi del cimitero; alcuni giorni dopo, tutti gli alberi dell’intera gronda lagunare, avevano delle strane buche attorno.

DJ Andersen aveva una parola per tutti, raccoglieva le confidenze di mezzo quartiere e, credo, ci sia stata più gente che andava a “confessarsi” da lui che non dal prete. Prima di traslocare, con tutta la mia famiglia a Milano, andai nel suo garage per salutarlo; erano i primi di luglio, il garage, da tempo ormai, non era più “arredato” come una volta; scorsi un presepe tra gli scaffali. “Te lo sei dimenticato?”, gli chiesi, “No”, rispose, “E’ lì per ricordarmi che Natale è tutti i giorni”.

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25 dicembre, ore 16.30 … ancora in onda

Ciao a tutti!. Siamo sempre noi di SOLARADIO, sui 1172 Kilohertz. Quasi me lo sentivo che, quella di un mese fa non sarebbe stata l’ultima trasmissione. Invece, la mia voce si sta di nuovo diffondendo nell’etere.

L’etere, lo spazio dove si diffondono le onde elettromagnetiche. Secondo gli antichi, era la parte più alta, pura e limpida, dello spazio al di sopra dell’atmosfera. Ho sempre fatto mia questa romantica e magica definizione.

Credo, in effetti, sia stato per magia che SOLARADIO si sia improvvisamente riaccesa, come un vulcano che si risveglia dopo millenni. Rajaa, non per vantarmi, ma ho capito subito, quando ti ho visto al bar col Mauri, che la magia ti aveva contagiata. Come accadde a noi allora, anche tu hai sentito forte il richiamo della radio.

Non siamo riusciti a resistere alle tue richieste, i tuoi occhioni neri fondi parlavano da soli; e poi, SOLARADIO non poteva finire li. Fai radio una volta e la fai per sempre. E’ vero, quello che hai detto DJ Andersen, è una passione che ti rimane per sempre dentro, in un angolo del cuore, ma è anche un bisogno. In radio sei meno solo e puoi far partecipe gli altri della tua solitudine, puoi tirar fuori quello che altrimenti ti saresti tenuto dentro; è un luogo dove nessuno ti giudica per il tuo aspetto e per come sei vestito.

Io e Rajaa, vi parliamo oggi da un posto diverso, da quello dove abbiamo iniziato quarant’anni fa. Siamo a casa sua, una delle tante case che ospitano i ragazzi rimasti soli come lei: nuovi fioi dei paeassoni delle periferie del mondo.

Da quanto tempo desideravo un Natale “cavà fora dal soito”, come si usa dire qui. Da quanto tempo a Natale mi rattristo alla vista di luminarie pacchiane. Da quanto tempo a Natale faccio cose che non voglio fare, a cominciare dagli ipocriti auguri di circostanza. Da quanto tempo non vedo l’ora che passi il Natale. Oggi, Mauri, Rajaa e i suoi amici, hanno esaudito il mio desiderio. A dire il vero ho lanciato io l’idea di passare il Natale con voi, ragazzi, e le nostre, più o meno intere famiglie, per poi, dopo, riaccendere SOLARADIO, da oggi, speriamo, all’eternità.

Fra alcuni minuti cederò il microfono a questi ragazzi, ora SOLARADIO, il nostro regalo di Natale, è loro. Trasmettiamo anche in streaming sul Web, dobbiamo arrivare lontano perché i loro paeassoni sono sparsi per mezzo mondo. Vi racconteranno le loro storie, fidatevi, saranno interessanti come quelle di DJ Andersen, con la differenza che non sono inventate.

Prima però, nello spirito della radio, devo mandare in onda una canzone, è la tua Mauri, quella che mettevi sempre e che tante volte ho sentito uscire dal tuo garage. Quando ti chiedevo se non ti vergognavi a raccontare balle mi dicesti: “nella vita ognuno recita una parte, l’importante è che sia la sua”, solo ora capisco cosa volevi dire.”

Dedicata a Mauri, che ha fatto correre a se un sacco di persone

… Grazie per questo favoloso Natale.

Run to me whenever you’re lonely.
Run to me if you need a shoulder

Now and then, you need someone older

So darling, you run to me.

Corri da me ogni volta che ti senti sola

Corri da me se hai bisogno di una spalla

Alle volte si ha bisogno di qualcuno di più’ grande

Perciò amore, corri da me

© Barry, Robin & Maurice Gibb – The Bee Gees – “Run to Me” – 1972 –ASCOLTA

Maurizio “Mauri Andersen” Varetton, psicologo, ha fondato e dirige un gruppo di case famiglia per minori. E’ inoltre autore e registra teatrale.

Buon Natale a tutti voi da SOLARADIO, solo radio… e basta!

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