Londra – New York

Fio dei fiori Capitolo 16 – Capitolo precedenteIndice


Ai piedi del letto trovai Liza Bitol Minelli in mutande, intento a intonare “New York New York”; apparentemente si era appena docciato, ciò significava che almeno un paio d’ore ero riuscito a dormire. Lord Sega era sparito, probabilmente, era uscito per una passeggiata meditativa. Io e il bluesman in mutande, ci vestimmo in un millisecondo, non vedevamo l’ora di scendere giù a sfondarse el bueo con una abbondante colazione.

Fino a quel momento non avrei mai immaginato di mangiare a colazione uova strapazzate, pancetta, salsiccia, formaggio, pomodori spadellati e funghi. Se qualcuno prima me lo avesse proposto sarei inorridito, però, Fugasseta, non poteva certo fare un torto a sua maestà, esimendosi da un full breakfast come tutti gli altri suoi sudditi. Gli altri due, che si accontentarono del classico pane tostato con burro e marmellata, più un pezzo di torta, rimasero alquanto schifati nel vedermi ingurgitare tutta quella roba.

La seconda giornata londinese fu alquanto pesante, eravamo ormai proiettati verso l’America, oltre alla stanchezza generale, specie del nostro capo comitiva, c’era l’ansia di arrivare per tempo in aeroporto. Dopo aver lasciato i bagagli al deposito, adempimmo subito al rito imposto dal Bitol: attraversare le famose strisce pedonali di Abbey Road. Trovammo una piccola folla di italiani che, a son di farsi fotografare a turno nell’atto di attraversare, stava provocando un certo rallentamento nel traffico. Fortuna che i malcapitati automobilisti di sua maestà, erano dotati del tradizionale self control, da noi ti avrebbero prima assordato con il clacson e poi, se insistevi imperterrito, ti sarebbero passati sopra senza pietà con un SUV da centomila tonnellate.

Compimmo anche noi il gesto istituzionale, permettemmo inoltre al nostro uomo, di sostare per alcuni minuti in religioso silenzio e respirare profondamente la stessa quantità e qualità di smog dei suoi quattro maestri di vita, dei quali, secondo lui, in quella strada, aleggiava ancora lo spirito.

Ci fiondammo a Portobello Road, convinti più che mai che avremmo fatto grandi affari nonché trovato l’oggetto più rappresentativo della nostra permanenza a Londra. Fu una mezza delusione, le bancarelle parevano l’una la fotocopia dell’altra, proponendo spesso l’immancabile “made in China”. Io e il Sega acquistammo due tascapane, lui modello militare con il classico simbolo della pace, io, invece, uno in cuoio da fighetto, come lo definì il Bitol. Quest’ultimo, invece, si fece prendere dalla sindrome dell’acquisto compulsivo, girovagava tra le bancarelle e i negozi come un assatanato; “speteme, rivo subito”, ci disse prima di sparire tra la folla. Capimmo l’antifona, considerando il tempo che ci avrebbe impiegato, non ci restava altro che spararci una birretta accompagnata da un hot dog unto e bisunto. Lo vedemmo arrivare da distante mentre agitava in aria una piccola chitarra, tipo quella che regalano ai bambini; lo sguardo disperato del Sega diceva tutto, scossi la testa e gridai: “El xè mona”.

Iniziò subito a giustificare l’acquisto cercando di convincerci che non era un giocattolo: suonava per davvero e, per giunta bene. Fu inutile cercare di farlo ragionare circa il fatto che eravamo risicati con il bagaglio, l’uomo sembrava rimbambito. La sparò grossa, asserendo che, tra lui e il chitarrino, c’era stato un richiamo vicendevole, qualcosa di spirituale. In effetti, probabilmente, gli era rimasto dello spirito, nel senso di alcool, dalla serata precedente.

Scovammo, nei pressi di Notting Hill, una minuscola tea room ubicata nel seminterrato di un vecchio edificio, un posto veramente particolare gestito da due giovani ragazze vietnamite. Ormai potevamo considerarci degli inglesi a tutti gli effetti, e quindi, non potevamo rinunciare al rito del the, ovviamente arricchito da alcuni sandwich a testa. Il Bitol, che ci stava veramente fracassando i cosiddetti, a noi e, anche agli altri avventori, distolse l’attenzione dal giocattolo nuovo. Schioccò le dita e chiese alla cameriera qualcosa di forte, da uomini veri, che dovevano prepararsi a varcare l’oceano. Accanto alle tazze di the, apparvero tre bicchieri di ottimo, a detta della ragazza, whisky irlandese torbato, una vera schifezza ma, pazienza, ci adattammo.

Un’occhiata all’orologio a muro fece sussultare i nostri cuori, era ora di lasciare il vecchio continente. Mi prese nuovamente la stessa trepidazione della mattina prima, le mani cominciarono a sudare, frugai nervosamente nello zainetto per controllare se c’erano tutti i documenti, presi la bandana finita sul fondo e la strinsi forte.

L’aeroporto di Heatrow ci sembrava più grande di Gatwick, i controlli di sicurezza ingigantiti e, l’aereo era molto più grande di quello del giorno prima; forse l’anticipazione che in America sarebbe stato tutto più grande.

“Siete italiani?”, una biondina ricciolina dall’accento straniero, seduta sul sedile di fronte al mio, ancor prima che riuscissimo a sistemarci, ci rivolse la parola, “scusa, mi faresti il favore di scambiarci di posto”, ce l’aveva con il Sega, “sai ho problemi alle gambe e, mi farebbe comodo stare vicino al corridoio per potermi alzare”. A mio primo e modesto giudizio, l’unico problema che potevano avere le sue gambe stava nel fatto che erano coperte da una gonna troppo lunga e ai piedi aveva dei modestissimi infradito anziché un tacco dodici come avrebbe meritato di essere. La verità era che, ai due lati, aveva da una parte un Pakistano, o giù di lì, che emanava un forte odore di cipolla mista a aglio, mentre, dall’altra, una signora oversize di colore che, le stava invadendo parte del sedile. Il povero Sega, mangiò la foglia e, dandomi con discrezione di gomito, accettò lo scambio mentre il Bitol, in un attimo in cui la biondina era girata, non perse l’occasione per fregarsi le mani e tirare fuori la lingua. Peccato che una vecchietta seduta sull’altra fila notò la cosa, facendo una evidente faccia di disgusto, che vergogna.

Verena, questo era il suo nome, mi inebriò da subito con il suo dolcissimo profumo, aveva frequentato l’accademia di belle arti a Venezia, parlava l’italiano in maniera stupefacente, il suo accento poi, mi faceva impazzire. Abitava in un paesino dell’Austria, dal nome impronunciabile; situato in riva a un lago nonché famoso per la produzione di ceramiche. Stava andando a New York dalla sorella che gestisce l’atelier dell’azienda di famiglia, ovviamente di ceramiche. Mi colpirono gli orecchini, composti da sottilissime foglioline color blu cobalto attaccati a un filo rosso che sembrava rame. Non so come mi uscì la frase: “che belli”, fatto sta, che colpii nel segno. Gli si illuminarono gli occhi, mi disse che si trattava di esemplari unici, fatti da una sua cara amica artista come lei; ebbi la netta sensazione che quell’inaspettato complimento servì a mettermi in buona luce.

Con lei accanto, non vissi quel mio secondo volo con la stessa ansia del giorno prima. Avevamo già intavolato il discorso riguardo il nostro viaggio, aspettai con trepidazione che si spegnesse la spia delle cinture, per recuperare libro e bandana dallo zaino sulla capelliera. In meno di mezz’ora, gli versai di brutto tutta la storia addosso, cercando inoltre, di apparire un romanticone ai suoi occhi.

Mi ascoltava con attenzione, lo si capiva da quei bellissimi occhi che mi fissavano, l’iride di color smeraldo era di una trasparenza finora mai vista. A causa della mia timidezza, non riuscivo a ricambiare lo sguardo, giravo il capo nelle direzioni più disparate, credo di essergli sembrato alquanto scortese, per non dire stronzo, che dire, non riuscivo proprio a sbloccarmi.

Perché cerchi questa signora? Non vuoi bene a chi ti ha allevato?”. Mi arrivò una stilettata dritta alla bocca dello stomaco, possibile che ‘ste donne siano così crudelmente perspicaci? Il volo era appena iniziato, per arrivare a New York ci sarebbero volute ancora parecchie ore, in più, seduto sul sedile di mezzo, mi sentivo privato di ogni possibilità di fuga.

La dolcissima Verena aspettava impaziente una risposta, possibilmente sincera. Cercavo nuovamente di evitare il suo sguardo; a testa bassa, con le mani sudate e libro in mano, osservavo le infradito bianche tempestate di minuscole perline, le unghie curatissime, ci aveva messo un bellissimo smalto azzurro lucente. Niente, il mio cervello era andato in blocco come le caldaie, inutilmente cercai il pulsantino rosso per sbloccarlo.

Fortuna che continuò lei. “Da quello che mi hai raccontato, ho la sensazione che tu abbia ricevuto poco affetto. Stai sempre tutto curvo con lo sguardo rivolto verso il basso, tipico di chi da piccolo non ha ricevuto sufficienti carezze e attenzioni”; ci mancava anche una saccente psicologa dilettante.

Ma guarda chi mi è capitato vicino, pensai, poco fa mi parlava con passione di vasetti, terrine e teiere, e ora, ha la pretesa di aprire il mio intimo profondo come una scatoletta, vuole mandarmi in mille pezzi, come se fossi anch’io di ceramica. Quel suo modo di fare mi dette alquanto fastidio.

Durò poco, il tempo di sentire la sua mano che, delicatamente tirava il mio mento verso di lei, “hey, parlo con te, guardami negli occhi, a cosa stai pensando?”

Mi sentii di colpo scivolare sul sedile, il mio amico, sotto i pantaloni ebbe un leggero sussulto ma, niente di eclatante; sentivo la mia faccia rossa come se avessi trangugiato un intera damigiana di clinton.

Era la prima volta che mi capitava di essere ascoltato con così grande interesse da una donna. Il cervello si riattivò e spalancò le porte del magazzino del mio vissuto che, come un fiume in piena, riversai su di lei.

Quel senso di alleggerimento non l’avevo mai provato, nemmeno quelle rare volte che mi confessavo dal vecio Piovan. Mi stupii di come fosse fluido il mio modo di parlare, senza le autocensure che spesso mi imponevo. Per continuare a stare in sintonia con Verena e, anche perché faceva figo, ordinai anch’io per cena il menù vegano.

“Anch’io sai con mio figlio …”, quella strana polpetta verdognola si fermò esattamente a metà strada nel tubo digerente. Mi stava dando dei consigli che avrebbero potuto aiutarmi nel districare un po’ la matassa della mia esistenza ma, al sentir quelle parole, il cervello si resettò di brutto; per l’ennesima volta era caduto il palco e partii per la tangente.

Un figlio, chi l’avrebbe mai immaginato. Dov’è il suo uomo? Forse è separata? Perché non ha portato con se il bambino? Madre snaturata, avrà certo lasciato il figlio a qualcun altro mentre se la spassa in giro per il mondo. Non riuscivo a pensare a altro, tutto quello che mi aveva detto fino a quel momento perso, svanito nel nulla.

Si alzò per sgranchirsi le gambe, credo avesse capito che non la stavo più ascoltando; ma era una cara ragazza, molto comprensiva e paziente, per cui, non si offese. Pure io e i soci decidemmo di farci una passeggiata per gli stretti corridoi di quel gigante dell’aria. Non appena fummo fuori dalla portata di udito di Verena, mi chiesero, ovviamente, di fargli un dettagliato report; li liquidai in fretta, con un generico “vi dirò”.

Trovai Verena addormentata profondamente. Aveva invaso parte del mio sedile per cui, con delicatezza le spostai la testa, indugiando nell’accarezzare i suoi bellissimi ricci. Mi comportai da vero gentleman, d’altronde ero appena stato a Londra, tirando la gonna in senso contrario, rispetto a quello che mi suggeriva l’amico sotto i pantaloni, per coprirle la gambe. Però, ripeto, che spettacolo sarebbe stato con la gonna corta e il tacco dodici.

Continua ….

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