Dave and his band

Fio dei fiori Capitolo 14 – Capitolo precedente – Indice


Giungemmo esausti nei pressi del pub, tanto da aver voglia di fare marcia indietro e andare a letto senza cena. Visto da fuori sembrava uno “vero” e non un’attrazione per turisti come alcuni in centro a Londra, il ritmo del blues che usciva dal locale ci diede uno slancio di energia supplementare ed entrammo.

Fino a quel momento non avevo mai avuto una particolare attrazione per il blues, ma quella sera tutto cambiò. Dave, il leader della band cantava suonando in maniera, oserei dire, acrobatica, un vecchio organo Hammond dal legno tutto consumato. Ci metteva una tale foga che mi aspettavo di veder, da un istante all’altro, spaccarsi in due quel cimelio risalente, a detta dell’esperto compare Bitol, almeno a cinquant’anni orsono. Il nostro amico, di fronte all’esibizione dei “colleghi” d’Oltremanica, entrò quasi subito in uno stato di trance, tale da dover provvedere noi all’ordinazione per suo conto.

Ancora non so come tutto sia iniziato, la stanchezza e la birra purtroppo mi avevano creato una sorta di buco nero nella memoria, fatto sta che, uscito dal bagno, vidi il Bitol alla chitarra accanto a Dave. Pensai subito si trattasse di uno strano e surreale effetto collaterale della faticosa giornata da turista sommato alla troppa birra, a posteriori comunque, avrei potuto verificare visto che Sega stava riprendendo la scena con la macchina fotografica. La “strana coppia” rese l’atmosfera incandescente, il ritmo del blues stava vorticosamente trascinando i presenti in frenetici balli, non feci in tempo a avvicinarmi al minuscolo palco per rendermi meglio conto di quello che stava succedendo che, venni trascinato nella mischia da quel beo montareo di cameriera, che soprannominai Minnie, a causa della minigonna nera con vistosi pois bianchi. La tipa mi prese per mano spiaccicandomi addosso al suo corpo; il primo punto di contatto furono le sue gigantesche bocce, contemporaneamente, qualcosa, che fino a quel momento era rimasto tranquillo, iniziò a attivarsi; niente panico, pensai, sarebbe stato, al contrario, da preoccuparsi se in quella situazione non si fosse mosso niente. Da noi in campagna c’è un vecchio detto: ”tira più un peo de mona che un paro de bo’”, niente di più vero; adeguatamente stimolato, mi trasformai improvvisamente in uno scioltissimo ballerino blues, sempre ammesso che esista un modo di ballare il blues.

Ad un tratto l’improvvisato, e ormai famoso bluesman italiano, nel bel mezzo della canzone intonò:“el Fuga xe pusa, el Fuga xe pusa, ohi fioi ! Bum bum, stasera, bum bum, el Fugassa, xe cassaaaa!! Ooooh yeah”. “Che cosa sta dicendo?”, mi urlò nell’orecchio Minnie, per ben tre volte prima che riuscissi a capire cosa voleva sapere, “niente, niente, un pezzo di una vecchia canzone italiana”, risposi, senza riuscire a trattenere una sonora risata. Mentre me ne stavo avvinghiato alla tettona pensai che il viaggio stava iniziando già a dare i suoi frutti, insomma, soldi ben spesi, inoltre, Il detto di Gioni: “co ghe xe odor de figa no se sente tristessa ne fadiga”, mi sembrava pienamente azzeccato.

Alla chiusura del locale, ci trovammo,seduti sul muretto antistante, noi, i tre della locale band e, sorpresa, Minnie, alias Debbie, titolare del pub. Il Bitol doveva aver perso la tramontana, stava fumando con estrema soddisfazione una sigaretta offerta da Dave,  dimenticandosi del fatto che erano più di quattro anni che aveva smesso; come rifiutare però una sigaretta offerta da un così illustre collega. Sir Sega parafrasò Enrico IV “Londra val bene una sigaretta”, che uomo di cultura!

           “Tiralo fuori”, menomale che non l’aveva detto Minnie, altrimenti il mio amico sarebbe tornato ad agitarsi, el Bitol si riferiva al libro che, assieme alla bandana, tenevo nello zainetto. I soci, mentre me ne stavo chiuso in bagno per un ultima puntatina, avevano spifferato tutto riguardo la nostra “missione”. Sotto la luce fioca del lampione, il gruppetto di inglesi, non mi ricordo come si chiamavano gli altri due della band, pazienza, tanto, in ogni storia, ci sono sempre dei personaggi secondari, prese in esame la frase di Kate, finii per trovarmi quattro paia di occhi, compresi quelli lucidi di Minnie, puntati addosso; stavo tendando di abbozzare una frase quando, subii l’abbraccio solidale di Dave, un misto di odori di fumo, sudore e birra. I quattro sudditi di sua Maestà si riunirono per porsi le nostre stesse domande riguardo a Kate; come noi Mul, anche loro cercarono di ripercorrere a memoria le biografie delle cantanti folk che conoscevano. La cosa li stava visibilmente appassionando, sentivo un tuffo al cuore ogni qualvolta, dal loro discutere, udivo qualche nome che nelle nostre ricerche non era uscito; alla fine ammisero però che la cosa era complicata. Il batterista di cui, ripeto, non ricordo il nome ma, solo quei vistosi tatuaggi sulle braccia, ci disse che, con l’ausilio di alcuni suoi contatti, si sarebbe dato da fare; ”Scotland Yard?”, mi sibilò su un orecchio Sega. Minnie dotata di ottima calligrafia, trascrisse sul blocchetto usato per le ordinazioni, la frase di Kate e altri dati che potevano essere di rilievo.

La band ci propose di farci scoprire un lato insolito di Londra, ci incamminammo lungo alcune stradine che, a detta loro, ci avrebbero condotti in un posto magnifico. In altre circostanze la cosa poteva preoccuparmi ma, avevo Minnie appiccicata al fianco che mi cingeva la vita con la mano, per cui, non mi importava nulla di tutto quello che accadeva attorno; ero tutto preso dall’emozione di quel inaspettato contatto, più intimo e intenso del ballo. Attraverso le parti del mio corpo a contatto con il suo cercavo di immaginare la sua pelle nuda, ovviamente, anche il mio amico sotto i pantaloni si era ridestato.

Intercalavo monosillabi o al massimo qualche “yes”, alle sue parole, non capivo una mazza di quello che diceva, facevo una fatica boia a concentrarmi, le pause di silenzio erano imbarazzanti, niente da fare, non mi veniva fuori uno straccio di frase; da irreversibile introverso, fui solo capace di lanciare un messaggio subliminale, fischiettando Somebody to love dei Queen.

About your mother”, furono le uniche parole di Debbie che mi restarono in mente.

Entrammo in un immenso parco, era la collina di Hampstead, dal punto panoramico, ci sembrò che Londra stesse ai nostri piedi, uno spettacolo che sembrava riservato a pochi intimi. Ritto in piedi sopra una specie di basamento Lord Bitol Semensa proclamò un discorso sull’ormai sancita alleanza con i bluesman inglesi; seguì l’annuncio ufficiale di una tournee del gruppo in terra veneta, della quale, lui, sarebbe stato l’organizzatore. “Bravo mona, sta e vedere che va a finire come JAZZ & TONIC”, la voce secca del fatalista Sega stroncò l’uomo che, mogio mogio, scese subito dal piedestallo.

Qui merita di essere aperta una parentesi. E’ tipico di noi mul introversi, cercare continuamente occasioni per emergere dall’isolamento che ci affligge. Anche se ci ostiniamo a non ammetterlo, sentiamo più di altri il bisogno di metterci in mostra, specie con i montarei, per cui, periodicamente ci inventiamo qualcosa per “farse vedar”; un esempio da manuale fu il famoso JAZZ & TONIC.

Agli inizi degli anni ’90 quando il bar del Rutto era ancora del Rutto, mi balenò l’idea di organizzare una serata di ascolto jazz nella saletta interna del locale. Attratto più dal fatto che era un genere di tendenza piuttosto che dalla musica in se stessa, avevo in casa parecchi CD di jazz. Mi faceva sentire un fico solo il pronunciarne la parola, non semplicemente “gez”, troppo banale, ma, un bel “jjaaaaaaas”, con la bocca bella piena.

Sarebbe bastato installare dal Rutto, l’allora ultima creatura del Sega, un paio di casse acustiche dalla forma particolare e il suo mitico amplificatore valvolare, per ricreare la magica atmosfera del Jazz Club. Lanciai l’idea agli altri due mul; parlammo naturalmente anche col Rutto, convenimmo sul fatto che ci sarebbe stato un sicuro ritorno di immagine ed economico. In realtà, speravamo, in cuor nostro, che l’iniziativa potesse attirare una certa quantità di montarei. L’organizzazione procedette a ritmo sostenuto, arredamento della saletta, scelta della scaletta musicale e, naturalmente locandine, dove campeggiava l’originale titolo pensato dal Bitol, JAZZ & TONIC che, fresche di stampa, tutto eccitato, mi accinsi ad affiggere da subito dentro il bar.

Il destino volle che quel giorno mettesse piede nel bar quello stronzo patentato di Riccardo Bellè, stava facendo un giro propagandistico per esporre il nuovo montareo di turno a cui si accompagnava. “Che cazzo è ‘sta cagata?”, la sua attenzione, ahimè, fu catturata subito dal manifesto; non appena si diradò la nuvola di fumo della sigaretta che, con fare sprezzante, gli soffiò addosso, prese a esaminarlo da cima a fondo con aria di sfida. Il Rutto stava per fargli cenno di rivolgersi a me ma io, prontamente, mi rifugiai dietro la parete accanto al bancone, tenendomi comunque a portata di orecchio.

“Ue’ Sergio, sai che per far ‘sta roba devi pagare come minimo la S.I.A.E. vero? Altrimenti, se ti beccano son cazzi acidi!”.

L’effetto fu quello di una granata che, in un attimo, dilaniò l’ennesimo nostro tentativo di “farse vedar” e le relative speranze riposte in esso. Lo stronzo, purtroppo, aveva maledettamente ragione, se volevamo fare la cosa, bisognava sborsare una cifra astronomica. Facemmo in mille pezzi i manifesti mentre il Sega pronunciava il suo proverbiale: “eo savevo mi.

Trovo il pessimismo del Sega eccessivo, non era il caso di spegnere così brutalmente gli entusiasmi del povero Bitol per giunta poi, in una magica serata come quella Riuscii a stupire me stesso per il modo deciso con cui intervenni. Rimisi a forza il socio sopra il piedestallo insieme a me, e poi via con il sermone.

“Esimi colleghi mul, abbiamo avuto la fortuna di incontrare, all’inizio di questo nostro primo vero viaggio, delle belle persone, (pensavo a Minnie) le quali, complice la musica, sembrano essere amici da una vita. Sinceramente non credevo che già il primo giorno facessimo una così bella esperienza (continuavo a pensare a Minnie), apprezzo quindi la lodevole iniziativa del qui presente Lord Bitol Zago duca di Semensa, di invitare i nostri nobili amici a diffondere le loro piacevoli melodie lungo le rive del sacro Piave. Personalmente mi impegnerò a rimuovere qualsivoglia ostacolo che si frapponesse nel percorso, eventuali stronzi compresi! Chiedo ora a Sir Sega di tradurre per gli amici”, scoppiò l’applauso generale, mentre Minnie mi guardò divertita.

Erano quasi le due di notte, davanti gli scalini d’ingresso dell’albergo era tutto un susseguirsi di baci, abbracci e scambi di mail, salimmo in camera più eccitati che mai, io un po’ anche dal punto di vista sessuale. Stabilimmo il turno docce, il Bitol si offrì per ultimo per cui, farfugliando qualche indecifrabile canzone inglese, si buttò, ancora con le scarpe ai piedi, di peso sul letto, pronunciò un soffocato “great London!” seguito da due sonore scoregge poi, dopo un attimo di silenzio, prese a russare alla grande.

Al russare del Bitol ci eravamo abituati ma, alle finestre, senza scuri ne tapparelle, no, per cui, tanto valeva tenere aperte le pesanti tende e goderci la vista distesi sul letto, con le braccia dietro la nuca.

Aeora?”, disse Sega sottovoce, “Aeora cossa?” replicai ridendo, sapendo benissimo che alludeva a Minnie, “non mi par vero di essere qua” aggiunsi, in modo da condurre il discorso su un’altra strada, “lo sai vero che è la compagna di Dave”, continuò imperterrito; “eo savevo”, dissi, anche se non era vero; toccava di diritto a me pronunciare quella maledetta frase e poi iniziare a smontare pezzo per pezzo le mie illusioni.

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