Fio dei fiori Capitolo 13 – Capitolo precedente – Indice
Nonostante la velocità, il trenino filava silenzioso e discreto tra la verde campagna come fosse un gentleman inglese, scemata la tensione per il volo ero felice e euforico, tra poco avrei incontrato la metropoli.
Il Bitol aveva ripreso a agitarsi frugava in continuazione nello zaino, per ben due volte rischiai di venire accecato dal tagliente angolo della cartina di Londra che, nervosamente continuava a rigirare; l’intensità e pure l’odore della sua sudorazione erano aumentati, gli dissi che non appena fossimo arrivati in albergo doveva sottoporsi a una doccia coatta poi, sfortuna volle che si ricordò della macchina fotografica per cui, continuò ad accecarmi con continui lampi di flash. Ritornai ai miei pensieri, era quasi un miracolo, erano passate solo alcune ore, mi trovavo a viaggiare su un treno con gente delle più svariate nazionalità, in un posto distantissimo dal mio paesino; dal finestrino vedevo scorrere un paesaggio con abitazioni architettonicamente molto diverse, mi sentivo già un viaggiatore provetto. Quell’attimo di autostima cessò alla vista della ricciolina rossa seduta due sedili più avanti, le dita volavano letteralmente sulla tastiera del portatile ultrasottile di ultima generazione che teneva sulle ginocchia, doveva essere una universitaria, quei tipi sono patiti per quel genere di computer; dalla coloratissima borsetta sbucavano un pacchetto di sigarette e un’agendina nera alquanto consumata come pure la sua valigia. Io, a quarant’anni suonati, ero al mio primo viaggio all’estero, l’esile rossa invece, una persona sicuramente navigata ed esperta in tutti i settori della vita, avrà già visto mezzo mondo; una bella ragazza che però mi metteva soggezione. Era solo a tre metri da me ma, quanta era la distanza culturale e mentale; non avrà avuto neanche trent’anni eppure dava l’idea che avesse fatto, ovviamente anche per quanto riguarda il sesso, le più diverse e stravaganti esperienze; da bravo ragazzo timido e di chiesa che ero, evitai di fissarla con insistenza, in modo che non mi scambiasse per un poco di buono per cui, mi girai verso il finestrino. Il mio faccione riflesso sullo sfondo del countryside inglese, mi pose una domanda: a cosa sarebbe servito questo viaggio? Probabilmente a niente, nel senso che non avrebbe cambiato di una virgola l’andazzo della mia vita; non appena tornato, mi sarei trovato di fronte agli irrisolti problemi di sempre: non avere una donna, non avere un lavoro serio e appagante, gestire ea vecia Bepina scansando i conflitti con mia sorella e mio cognato; nel frattempo la rossa, visibilmente di buon umore, stava conversando al telefono con tono sensuale, ad occhio le si prospettava una serata a base di fumo, alcool e sesso.
Le abitazioni cominciavano a farsi sempre più fitte, sempre più grandi e, sempre più squallide; stavamo pian piano entrando nella grande metropoli, anche gli altri due mul guardavano fuori dal finestrino in silenzio con aria preoccupata. Fu un impatto forte, il treno stava entrando nella grande città che, finora, avevo visto solo in televisione; a vederla sembrava una giungla pericolosa pronta a inghiottirti e a farti sparire per sempre. Mi chiesi per l’ennesima volta che ci ero venuto a fare, la metropoli era per gente sveglia, furba e veloce, come la rossa che, nel frattempo, sbuffando si stava ricomponendo per la discesa; solo quel genere di persone potevano sentirsi a suo agio e non certo un contadin come me.
Victoria Station però non aveva quell’aria di squallore che ero pronto a trovare, in effetti, ero stato un po’ troppo prevenuto. Si vedevano ristoranti, negozi e persino un fiorista, nessuno che finora, preso dalla fretta ci urtasse violentemente come mi sarei aspettato. Mentre io e compare Bitol che, continuava a emanare folate di sudore acido, stavamo a bocca aperta e con il naso all’insù come bambini al luna park, il capo comitiva aveva già sapientemente smanettato con la biglietteria automatica acquistando i biglietti giornalieri per la metro. Iniziammo subito a dar spettacolo, il Bitol e relativo bagaglio rimasero incastrati nel tornello automatico di ingresso; prima figura di merda, coraggio, dovevamo farci il callo e prenderla con filosofia, visto che non sarebbe stata l’unica. Qualcuno avrebbe dovuto filmarci in metropolitana mentre, guardinghi e diffidenti, tenevamo tutti e tre la mano in tasca dove avevamo il portafoglio, fissai il Sega e gli chiesi “ti eo ga vero el corteo?”, e via a ridere tutti e tre come scemi.
Dopo tre quarti d’ora risalimmo in superficie, tirai un sospiro di sollievo, Sega, con il percorso di Google Street ben memorizzato nella zucca, procedeva spedito a piè sospinto verso l’albergo; a fatica riuscivamo a stargli dietro, nemmeno il tempo di guardarci attorno per assaporare i primi momenti di vita londinese. Il traffico era assordante, fortunatamente, attraversato lo stradone a quattro corsie, ci immettemmo in una piccola strada in salita e, d’improvviso il paesaggio cambiò, ci trovammo in un tipico quartiere inglese pieno di casette in stile vittoriano, una di queste era il nostro minuscolo albergo, “that’s England !” esclamò con fare saccente la nostra guida. Il test di inglese “check-in in albero”, fu rimandato per il semplice fatto che la ragazza alla reception era italiana, Sega rimase deluso per non aver potuto sfoderare le frasi da tempo preparate per l’occasione. El Bitol non attese nemmeno che la tipa, tra l’altro un bel montareo, terminasse le formalità di rito per la registrazione; le chiese subito, in mezzo dialetto, dove si poteva mangiare nei paraggi. I nostri soggiorni in albergo si potevano contare sulla punta delle dita di una sola mano e, tutte le volte, la prima domanda del Bitol era sempre la stessa; speravo che almeno stavolta, nella terra di sua Maestà la Regina dove noblesse oblige, evitasse di comportarsi da grezzo. Il montareo sorridente e con fare gentile fornì al boaro abbondanti informazioni, invitandoci tra l’altro a visitare il villaggio, così definivano il quartiere, attorno all’albergo; il socio ebbe un erezione, non tanto per le bocce della tipa che facilmente si riuscivano a intravvedere, quanto per una dritta che quella ci passò. La sera stessa, nell’unico pub del villaggio, dove, tra l’altro, avrebbero servito dell’ottimo cibo, ci sarebbe stato un concerto blues di un tipo, a suo dire, molto in gamba. “Non mancheremo per nessuna ragione al mondo” disse Sega con la cadenza tipica di un maggiordomo inglese; “musicisti?” chiese la nostra amica, “in parte”, fu la risposta, in effetti, definire il Bitol un musicista sarebbe stato spararla grossa.
Dopo aver armeggiato per alcuni minuti a testa con la chiave elettronica e aver pronunciato centinaia di “lassame far a mi”, riuscimmo finalmente a entrare in camera, il “musicista” un attimo dopo aver posato lo zaino cominciò a saltare come un bambino da un letto a l’altro, facendo finta di suonare la chitarra improvvisò un medley dei Beatles, lo lasciammo fare per il tempo che ci servì a andare al bagno, almeno aveva avuto la decenza di togliersi le scarpe.
Calcolammo di avere poco più di ventiquattrore a disposizione per il nostro tour londinese, come missili ci fiondammo in metropolitana direzione Green Park, optammo per quella fermata dato che era, in teoria, una delle più centrali sul percorso della nostra linea e poi, il nome evocava un parco. In effetti il parco c’era, da buon Fugasseta decisi di prendermi la mia prima soddisfazione del viaggiatore, nonostante l’ora, mi fermai al primo chiosco che trovai e ordinai un bicchierone maxi di caffè aromatizzato alla cannella e una ciambellona; non riuscii a capire quanto dovevo pagare, per non sbagliare gli sganciai un bigliettone da 10 Pound, senza nemmeno controllare che il resto fosse giusto, con quel bollente bicchierone in mano, mi sentii pienamente realizzato, il caffè mi rese subito euforico, Londra era ai miei piedi.
“Quanto hai pagato ‘sta porcheria?”, Sega cercò di spegnere il mio entusiasmo, non lo badai, sentivo già l’irresistibile richiamo di quella bella erbetta soffice che avevo innanzi. Mi distesi sul prato testa appoggiata sullo zainetto, occhi al cielo e cannuccia in bocca, Sega mi imitò, il terzo uomo dovette adeguarsi alla maggioranza.
Ero incantato dalla bellezza del posto, forse per il contrasto tra il luogo dove sono nato in cui, qualsiasi cosa sbucasse dal suolo era asservita all’utilità e non all’effimero scopo di rendere l’ambiente bello e rilassante come in un giardino inglese; mi voltai su un fianco per osservare meglio la superficie del manto erboso, lo tastai più volte, per carpire le differenze con “l’erba di casa mia”, era senz’altro più folta quasi fosse fatta apposta per distendersi sopra.
“No par vero”, anche Sega, faccia al cielo azzurro con qualche sporadica nuvoletta, si stava gustando il primo traguardo in terra straniera. El Bitol, con fare da orangotango, da quanto gesticolava e dagli “hu hu hu” che emetteva, ci pregava di alzarci in piedi alla svelta; stava porgendo la macchina fotografica a una ragazzina per la prima foto ufficiale di gruppo; l’inglesina però, una mezza Punk alternativa, era dotata di grande spirito artistico, per cui, volle fotografarci tutti e tre distesi sull’erba in quanto, a suo dire, era più “cool”; quegli scatti, in effetti, rimasero indimenticabili. Mentre l’orango continuava a saltellare attorno scattando foto all’impazzata, io e Sega, rimanendo distesi sull’erba a osservare le nuvole che accarezzavano le chiome degli alberi, ragionammo su quello che doveva essere lo spirito del viaggio, non dovevamo assolutamente farci prendere dall’ansia di vedere tutto ma, piuttosto, assaporare con lentezza quello che ci sarebbe capitato lungo il percorso. “Vedi”, disse il saggio, “è lo stesso con il cibo, se non lo assapori lentamente, non riuscirai mai ad apprezzarlo e sentirti appagato”, stava parlando a uno che, posseduto dallo spirito demoniaco del Fugasseta, ingurgita sempre tutto con avidità e in fretta pensando già a quello che mangerà dopo.
“Rimetto la guida nello zaino e, da ora in poi, cammineremo guidati solo dal nostro istinto o dal caso”, “c’è il serio rischio di perdersi ma è veramente figo, ci sto!”, risposi. L’orango, messo al corrente delle linee guida, era un po’ meno convinto ma, con la garanzia che per cena saremmo andati in quel pub, ci saremo fiondati in qualche negozio di musica e, l’indomani a attraversare le strisce pedonali di Abbey Road, ci diede il suo nulla osta.
Miracolosamente non ci perdemmo affatto, riuscimmo, in assoluta tranquillità, a spiaccicarsi sulla cancellata di Buckingham Palace, a intingere nell’acqua a Hyde Park i nostri piedi gonfissimi, a fare ordinatamente la fila per prendere uno dei famosi autobus rossi a due piani, a mangiarci dei gustosissimi sandwich fatti fare “su misura” e a farci spintonare dalla folla a Covent garden.