Fio dei fiori Capitolo 12 – Capitolo Precedente
Alle cinque di mattina l’aguasso si faceva sentire più che mai contribuendo ad amplificare la mia agitazione, tanto che avevo la pelle d’oca, camminavo nervosamente sotto casa in trepidante attesa di percepire il rumore della macchina di Gioni che si era offerto di accompagnarci all’aeroporto, continuavo a frugare continuamente nelle tasche del giubbino e in quelle esterne dello zaino con la paura di aver dimenticato qualche documento necessario per il viaggio. Notte insonne alle spalle passata a tormentarmi con mille se: se l’aereo precipita, se fanno un attentato, se ci rapinano, se mi ammalo all’estero, se dimentico qualcosa di acceso in casa o qualche rubinetto aperto, pensiero per cui, nel frattempo vi ero già risalito per ben due volte a controllare.
Il campo de panoce dietro casa emanava l’inconfondibile profumo di campagna, respirai a fondo con gli occhi chiusi, tra qualche ora sarei stato in un posto completamente diverso, distante migliaia di kilometri, pensieri da contadino, il vero viaggiatore non volge mai lo sguardo indietro. Il rumore di un’auto che rallenta e si immette nella mia viuzza, il cuore ha un sussulto e inizia a aumentare il ritmo, ci siamo è l’ora, il grande viaggio inizia.
Lo sguardo dei due mul era talmente ebete che gli accolsi con una risata a metà fra il nervoso e il liberatorio, Gioni, invece mi salutò fiaccamente, notai subito la faccia cupa. “N’demo” disse il Bitol battendo fortemente le mani, poi via nella silenziosa campagna mattutina.
Tra la palpabile tensione di noi tre e la tristezza di Gioni, in macchina regnava il silenzio, sembravamo i tre dell’apollo 11 dentro il pulmino che li avrebbe portati al razzo Saturn. Con lo scopo di vivacizzare quella surreale atmosfera e stemperare la tensione chiesi a Gioni qualcuno dei suoi mitici consigli: “ste tenti che a fame fa brutti schersi”, disse seriamente; Sega mi fissò scuotendo la testa, non era giornata, probabilmente a causa dei soliti problemi famigliari. Le parole di Gioni racchiudevano tutta la sua storia, il desiderio di trovare una donna a tutti i costi ti porta a fare scelte sbagliate che paghi per tutta la vita, lo sapeva bene lui che aveva dovuto sposarsi giovanissimo in quanto la Franca, quattro mesi prima, era rimasta incinta.
La campagna scorreva veloce sul finestrino, ci stavamo avvicinando all’aeroporto, dall’autoradio uscì una canzone che non avevo mai sentito, mi rese talmente felice da dimenticare le angosce e tutto quello che mi lasciavo alle spalle, quel brano divenne il leitmotiv del viaggio.
Salutammo Gioni frettolosamente, lo abbracciai, cosa per me insolita, stringendolo forte, era un gesto di solidarietà, seppur sposato, per come era andata, si poteva considerare a pieno titolo un mul come noi.
Volsi lo sguardo sul tabellone degli orari, quando scorsi il numero del nostro volo con accanto la scritta “on time – in orario”, il cuore riprese a battere forte e mi presero vampate di calore da donna in menopausa. Al banco check in, dietro di me, si era piazzato un tipo poco rassicurante, dai tratti mediorientali, cominciamo bene con un potenziale terrorista a bordo. La lunga fila di passeggeri sbuffanti e la faccia scazzata dell’addetta che, con gesti meccanici e quasi senza proferir verbo, in un attimo ci stampò la carta di imbarco facendo sparire dal nastro le nostre valigie, mi convinsero che viaggiare in aereo era per tutti, tranne che per noi tre, un fatto ordinario.
Altra file ai controlli di sicurezza, ci precedeva il mediorientale, volevo proprio vedere se per qualche motivo lo fermavano, passò tranquillamente il controllo facendo la faccia sorridente alla guardia, si stava evidentemente prendendo gioco di loro. Ironia della sorte, rivoltarono il povero Bitol come un calzino, venne rimandato indietro quasi fosse un appestato, dovette togliersi persino le scarpe mentre, dietro di lui, un paio di business man sbuffavano spazientiti; alla fine, tutto rosso in viso si ricompose, non prima di essere stato mezzo travolto dai quei due stronzi che continuavano a borbottare e a fissarlo con aria di superiorità; ”caffè?”, disse, con il tono tipico di chi aveva appena superato un esame.
Dalle vetrate, grazie alla giornata limpida, si godeva una bellissima vista sulla laguna, Sega, con la tazza in mano, era incantato a guardare la sagoma di Venezia che si stagliava all’orizzonte mentre a me e al Bitol stava venendo il torcicollo a son di seguire con lo sguardo la moltitudine di montarei che si aggiravano li attorno. Fu in quel momento che intravidi, seduto a un tavolino, il marito della piccoletta, probabilmente lavorava in aeroporto visto che indossava una divisa, stava divorando con avidità una brioche; com’è piccolo il mondo, oltre a parlare al mare, abbiamo in comune l’essere entrambi dei “fugasseta”.
“Signore, le è caduta la carta di imbarco”, sentii sbiascicare dietro le spalle, una bambina in carrozzina stava richiamando la mia attenzione, osservai per un attimo quel minuto corpicino racchiuso in una tuta rosa molto più grande, era completamente senza capelli e una mascherina le pendeva dal collo. La ringraziai raccogliendo ciò che mi era caduto, “buon viaggio” mi disse mentre, a fatica, tentava di mangiare uno yoghurt; Sega mi strattonò per il braccio, non ebbi il coraggio di voltarmi a guardarla ancora una volta, in fine dei conti, tutti e due viaggiavamo con una speranza.
Non ce la facevo proprio a stare seduto nell’attesa dell’imbarco, continuavo a guardare fuori il via vai frenetico degli aerei, Sega continuava a snocciolarci informazioni tecniche come se piovesse, non lo badai molto, il miei pensieri erano concentrati sul mediorientale, aveva smesso di leggere un libretto dalla copertina nera, sicuramente si trattava del corano, ora si era alzato e fissava l’aereo con uno strano sguardo, quasi di sfida, un brivido mi partì dal fondo schiena.
Quando varcai il cancelletto di imbarco e mi infilai nel tunnel che porta all’aereo, provai la stessa tensione di tre anni fa quando dovetti andarmi a operare il menisco. Ci sedemmo io al finestrino, Sega in mezzo e il Bitol lato corridoio con la promessa di scambiarci il posto al finestrino negli altri voli; dirimpetto al Bitol, sull’altro lato del corridoio era seduto lui, il mediorientale, il rischio che usasse il Bitol come ostaggio, minacciandolo di ucciderlo se il comandante non gli avesse aperto la porta della cabina di pilotaggio, era alto. Non riuscivo a capire una mazza di tutti quegli annunci in inglese che uscivano a raffica dall’altoparlante, doveva essere roba di routine, visto che nessuno si agitava più di tanto, nervosamente continuavo a sistemarmi la cintura poi, presi a consultare, con le mani intrise di sudore, il foglio plastificato che illustrava come uscire da quel tubo di ferro in caso di disgrazia.
Mi consolai nel vedere gli altri due soci alquanto agitati, mal comune mezzo gaudio, il Bitol stava agitando le ginocchia così intensamente che le vibrazioni si trasmettevano anche al mio sedile, quando poi, la hostess spiegò come indossare le maschere di ossigeno, si portò, senza alcun riguardo nei confronti degli altri passeggeri, le mani sulle parti intime, fu allora che, il mediorientale, vedendo il gesto, scoppiò in una risata liberatoria. Un terrorista non ride in quel modo, il poverino doveva essere agitato quanto noi, ne ebbi la conferma subito dopo, quando scambiò due parole col Bitol e gli offrì una gomma da masticare allo scopo di farsi coraggio e stemperare la tensione.
Ancora ben piantati a terra, fermi in attesa di imboccare la pista, osservai l’andirivieni dei motoscafi sul canale, potevano essere le ultime scene di vita terrestre che avrei visto, da li a poco ci saremo staccati da terra e chissà come sarebbe andata. Ci muoviamo, tocca a noi, le pulsazioni e la sudorazione aumentano, poi il rombo dei motori che cresce, l’accelerazione mi spinge sullo schienale, il paesaggio lagunare scorre sempre più velocemente, tutto vibra, secondi interminabili nei quali sembra che la pista non finisca più, il Bitol che nervosamente grida “vai, vai!”, poi, eccolo, il momento tanto atteso, l’aereo si inclina e si allontana rapidamente da terra, il corpo ha la sensazione di essere in ascensore, “oooh, ooh, uuh”, di nuovo la voce del Bitol, sotto di me la laguna con il sole, ormai quasi a picco, che si riflette nell’acqua, viriamo, ecco il mare e la spiaggia, chissà se stiamo sorvolando il nostro pontile. Mi rendo conto di aver monopolizzato il finestrino con il mio testone, mentre gli altri due allungano disperatamente il collo nella speranza di godersi una fetta di spettacolo, per rimediare, mi misi a fare un dettagliato resoconto di quello che si vedeva.
In base a calcoli approssimativi sulla rotta, ci stavamo dirigendo verso ovest e quindi, tra non molto, avremo dovuto scorgere in lontananza la nostra beneamata campagna, vidi il Piave ed eccoli, i campi rettangoli di diverse tonalità che, visti dall’alto, sembrano tracciati con il righello. La testa appoggiata sul finestrino mi trasmetteva le vibrazioni dell’aereo su tutto il corpo, era un momento solenne quello, stavo sorvolando i campi, il primo dei Nosea che si staccava da terra, ne ero fiero.
Ora che la tensione era visibilmente calata, con una lattina di birra strapagata e tre bicchieri di plastica, brindammo felicemente al nostro primo volo, a modo suo partecipava anche il terrorista mediorientale che, sorridendo rivolto a noi, faceva il gesto di asciugarsi il sudore sulla fronte, ora mi stava sempre più simpatico.
Scoprii che il sibilo del motore contribuiva a rilassarmi e provai un piacevole senso di isolamento, reclinai lo schienale e mi appoggiai sul fianco, ora che avevo allentato la tensione il sonno arretrato si fece sentire, mi addormentai cullato dal rumore dell’aereo, chi l’avrebbe mai immaginato. Di tanto in tanto gli occhi si aprivano, osservavo il paesaggio sottostante scorrere lentamente, le montagne e il mare di bambagia delle nuvole, mentre ci scivolavamo sopra.
C’era voluto un energico scossone del Sega per svegliarmi e dirmi che eravamo sopra il canale della Manica, mancava poco per metter piede in terra di sua Maestà. Vista dall’alto la campagna inglese sembrava avere un aspetto più signorile della nostra, senz’altro più verde e ordinata. Mentre l’aereo si avvicinava a terra, i particolari diventavano più nitidi, cercai con lo sguardo qualche “fratello campagnolo” anglosassone intento a lavorare i campi con aria nobiliare indossando per giunta un paio di candidi guanti bianchi. Un tonfo seguito da una forte decelerazione ed eccoci a terra, seguì l’applauso del Bitol e di qualche altro grezzo italiano, io, Sega e pure l’ex terrorista, ci vergognammo a morte.
Una grande metropoli, si vede anche dal suo aeroporto, tutto era più grande, percorremmo in processione con gli altri passeggeri dei corridoi interminabili dove il rumore dei trolley ti penetrava nel cervello. Ora bisognava capire se accettavano volentieri l’ingresso di tre mul di campagna in terra di sua maestà, mi riprese l’ansia, anche perché la tipa del controllo passaporti, con il viso sorretto dal braccio appoggiato sul bancone, aveva l’aria alquanto strafottente; mi fece cenno con la mano di venire avanti, mi strappò il passaporto dalle mani e mi chiese qualcosa, panico, stetti fermo immobile come un ebete. “Ha chiesto da dove viene”, mi disse gentilmente una signora italiana in fila dietro di me, iniziai a balbettare il nome del mio minuscolo paese ma, non feci nemmeno tempo a finire, che la tipa, squadrandomi dalla testa ai piedi con aria di sufficienza, mi riconsegnò il passaporto facendolo scivolare con la mano sul bancone.
Con la formula “tu che sai”, da quel momento e, per tutta la durata del viaggio, nominammo sul campo Sega capocomitiva, se non altro per scrollarci di dosso qualsivoglia onere organizzativo che, avrebbe potuto incrementare il nostro stato ansioso. Desidero soffermarmi ora, una volta per tutte, sul prezioso ruolo che ebbe il Sega, senza le sue indubbie capacità, il nostro viaggio sarebbe rimasto, come sempre, uno dei tanti sogni nel cassetto; in ogni circostanza sapeva in anticipo come muoversi, per questo non saprò mai come ringraziarlo, con lui eravamo in una botte di ferro.
Facendoci largo a malo modo tra gli altri passeggeri, ci fiondammo sui nostri bagagli che erano già sul nastro trasportatore, presi dalla paura che venissero risucchiati nel tunnel da dove erano usciti. “Good luck and bon voyage”, mi commosse il saluto del simpaticissimo ex terrorista, non so cosa, forse quel suo sguardo sorridente, ma mi dava l’impressione che mi avesse scrutato dentro e conoscesse tutta la mia storia.
Appena si aprì la porta automatica che dava sulla hall degli arrivi, restammo per alcuni secondi fermi in religioso silenzio, orgogliosi di essere riusciti a superare le nostre paure e pronti per affrontare a testa alta la nostra avventura.