venerdì 19 giugno

Fio dei fiori Capitolo 9 – precedente


Alle sette e venti, con notevole anticipo sulla consueta tabella di marcia giornaliera, ero già fuori di casa, pur non avendo dormito non mi sentivo per niente stanco. Minacciava temporale, c’erano vento forte e nuvoloni scuri in continuo movimento, quel tempaccio mi fece sentire felice, oltre per il fresco che dava una tregua dal sofego, associai il cambiamento del tempo alla novità che stavo vivendo.

            La straordinaria dose di felicità si sommò ai consueti dieci minuti di ordinaria felicità che provo nel recarmi dalle “brave ragazze” per farmi il solito cappuccino con brioche alla cioccolata. Lungo la strada riflettei su questo rito quotidiano, erano anni che non facevo colazione a casa, anche questo rito probabilmente nasceva dal incessante bisogno di affrancarmi dal triste vissuto familiare.

            Mi chiamano Fugassetta dalle elementari. I miei, allora, non mi davano mai la merendina da portare in classe per cui, usavo chiedere con insistenza ai miei compagni un pezzo di fugassetta. Persino la maestra era stufa di vedermi tallonare i compagni mentre gli urlavo: “dame un toco, dai dame un toco”, mi rimproverava per quel mio modo di fare, credo di essergli sembrato il figlio di due morti di fame. Agli occhi di mio padre quella fugassetta era un lusso, roba da ricchi, la risposta alle mie richieste di avere, alla pari degli altri, la fugassetta da portare a scuola, era sempre la stessa: “non rompere i coglioni, te la comprerai quando andrai a lavorare”, il tutto seguito dal solito trattamento di arrossamento alle chiappe. Divenni così un insaziabile goloso che, al grido di “Vui anca mi! Vui anca mi un toco!”, irrispettoso del prossimo, si tuffa con ingordigia su qualsivoglia genere di cibo.

Ovvia conseguenza di questo stile di vita, l’aumento considerevole del girovita il quale, inficia pesantemente il mio aspetto, a tale proposito, vanno aggiunti i “fondi di bottiglia” che porto agli occhi e la perdita di capelli che mi ha provocato il classico “cratere” al centro della testa.

Al lavoro, anche quel giorno non c’era molto da fare, purtroppo giornate del genere erano sempre più frequenti; in questi casi, anche per non far preoccupare paron Franzin, dandogli l’illusione che c’è attività lavorativa, uso rintanarmi in laboratorio a far ordine. In realtà non c’era molto da riordinare, visto che la maggior parte delle cose era roba vecchia che dovrebbe essere già da tempo, gentilmente fatta accomodare in discarica, il fatto è che a tutto quel vecchiume c’ero affezionato, dentro quel laboratorio c’è un pezzo significante della mia vita. Ogni oggetto ha una storia da raccontare, conservo ancora i pezzi dei primi PC che vendevamo vent’anni fa, ai tempi gloriosi quando in ditta, oltre al giovane paron Franzin, c’erano altre sei persone, il lavoro non mancava mai mentre ora è peagra, come si dice da queste parti, parlano da se i numerosi capannoni abbandonati nei paraggi.

 Mi dedicai a sistemare le vecchie bolle di accompagnamento, come iniziai vidi scorrere i primi anni di lavoro, scossi la testa e sorrisi ironicamente pensando al giorno in cui fui assunto dal Franzin. Era il primo aprile 1987, avevo appena finito il militare, mi ritenni fortunato nel trovare quasi subito un lavoro attinente il mio titolo di studio, la paga, settecentocinquantamila lire, mi rese euforico, era finalmente arrivata la tanto agognata indipendenza economica. Non mi pareva vero di andare in giro con l’auto aziendale dove, da bravo sboron, il capo aveva appiccicato la mega scritta “EF Office s.r.l. – Hardware & Software”, me la tiravo alla grande girando in lungo e largo per il paese, la domenica poi ci andavo persino a messa.

Bastarono un paio d’anni perché cominciassi a sentirmi insoddisfatto, vedevo inoltre i miei compagni di scuola trovare impieghi più appaganti e remunerativi del mio. Non era raro che qualcuno di questi stronzetti ti sfottesse chiedendoti, con falsa cortesia, notizie riguardo la tua situazione lavorativa per poi, senza lasciati finire di parlare, scaricarti addosso quanti più dettagli possibili riguardo i loro lauti stipendi farciti da benefit aziendali nonché, cosa che mi faceva più male, l’elenco delle donne che si trombavano “de fora via”. Iniziai quindi a spedire domande a destra e a manca nonché a comprare ogni venerdì i quotidiani dove pubblicavano gli annunci per la ricerca di personale qualificato. Dopo la bellezza di ventitré anni nulla è cambiato, sono il solo dipendente rimasto che, nel frattempo, ha visto transitare due generazioni di colleghi passati a miglior vita, chiaramente lavorativa.

Quel giorno in laboratorio mi caddero per l’ennesima volta le palle e iniziai a far pensieri strani sul canale di fronte, per non rendere più cagionevole la mia salute mentale, decisi di sospendere immediatamente il lavoro di archiviazione e di tuffarmi invece sul Web per riprendere le “indagini” inerenti il caso del secolo.

Non feci nemmeno a tempo a iniziare a trafficare che mi squillò il cellulare,  “Una notizia buona e una mezza cattiva”, disse secco il Sega.

La notizia buona anzi due, riguardavano il viaggio, grazie a una sua collega, esperta viaggiatrice, aveva trovato una buona occasione inoltre, el teron Ciro, sentite alcune sue conoscenze, lo aveva rassicurato circa la rapida emissione dei passaporti. Quella mezza cattiva consisteva nel fatto che quest’anno poteva finalmente disporre di quante ferie voleva, dal primo settembre la fabbrica avrebbe chiuso definitivamente e lui, assieme agli ultimi colleghi rimasti sarebbero stati messi in mobilità.

Che strano, il suo tono di voce non era per niente preoccupato, certo prima o poi sarebbe successo, la gloriosa SICE era ormai agonizzante, gli addetti alla produzione erano in cassa integrazione dalla primavera, erano rimasti solo i manutentori e gli impiegati, Sega trovava pure la voglia di scherzarci sopra.

Non riuscivo a capacitarmene, stava per perdere il lavoro e si preoccupava solo di organizzarci il viaggio, forse perché, in quel momento, stavo ragionando con la mentalità inculcata dalla mia famiglia, dove l’unica cosa importante era farsi il mazzo al fine di accumulare soldi. Godersi ciò che offre il presente, senza angosciarsi per il futuro, come stava probabilmente facendo Sega, era invece riservato a “jori là”, come li chiamava mio padre, ovvero chi non lavorava nei campi dalla mattina alla sera.

Ormai era ora di chiudere per la pausa pranzo, a parte alcune telefonate dei soliti clienti rompiballe i quali, da sempre continuano a tuonarmi nell’orecchio “no funsiona!”, una scusa in realtà per ritardare i pagamenti, la mattinata se ne era andata abbastanza velocemente. Mi diressi verso il centro commerciale con il solito scopo di fare un pasto decente usufruendo al meglio del misero buono da dieci Euro passato dalla premiata ditta. All’interno trovai la solita calca, non avevo assolutamente voglia di pranzare in mezzo a tutta quella confusione per cui, entrai nel supermercato e puntai dritto al bancone della gastronomia, due tramezzini, una vaschetta di insalata di riso e una bottiglietta di the freddo servirono allo scopo. A remengo la calura, un quarto d’ora di macchina e sarei stato li, ovvero un minuscolo gruppo di alberi immersi nella placida campagna vicino all’argine di un canale, da anni ormai eletto mio luogo di meditazione.

All’ombra dei miei alberi preferiti, si stava da favola, recentemente qualche sant’uomo aveva costruito due panchine e un tavolino, un’oasi in mezzo al sofego attanagliante che, nonostante la mattina promettesse pioggia, si era rifatto vivo più che mai. Nessuno in giro, campi sconfinati tutto attorno, ottima occasione per l’ennesima pisciata liberatoria, provai una soddisfazione immensa nel farla all’aria aperta, contribuendo nel mio piccolo a annaffiare l’arida terra. Disposi, con gesti lenti, le vettovaglie sul tavolino, aprii la vaschetta dell’insalata di riso e iniziai ad assaporarla contemplando l’estivo paesaggio rurale antistante.

Ogni qualvolta che me ne stavo sotto quegli alberi, osservavo il lento mutare delle stagioni, un bisogno forse dettato dal legame con la terra trasmesso dai miei antenati contadini, ciò mi dava un profondo senso di pace e serenità. “Tu chiamale se vuoi, emozioni”, come recita, a proposito della musica che non ci lascia mai, una famosa canzone.

Nonostante il suono delle cicale, riuscii ad udire il motore di un aereo sopra la mia testa, alzai lo sguardo e ne osservai la scia, quanti anni passati a osservare quelle bianche scie, un brivido mi attraversò il corpo pensando che probabilmente fra un mese o giù di li sarei salito per la prima volta in uno di quegli aerei e, magari sarei passato proprio qui sopra. Quanto tempo passato con il naso all’insù a chiedermi da dove venivano e dove stavano andando quegli aerei mentre, con la mano tesa verso il cielo facevo finta di catturarli come farfalle, desideravo da matti che uno scendesse vicino a me, sognavo di trovarne uno in miniatura in mezzo al grano. Riaffiorò, a proposito, un ricordo di quando ero molto piccolo, non so se si trattasse dell’ennesimo sogno oppure di un fatto reale; un tiepido e terso pomeriggio autunnale, un minuscolo aereo da turismo di colore giallo atterrò, con non poche difficoltà, su un campo vicino a casa poi, la corsa strattonato per mano dalla Teresa e il rapido salto del fossato in braccio a lei mentre dietro, più lentamente ci seguirono Ioani e ea Bepina. Io e Teresa eravamo angosciati, temevamo riprendesse il volo senza poterlo vedere da vicino, quando giungemmo nei pressi dell’aereo ci fermammo timorosi a una certa distanza. Il pilota, un omone dai capelli bianchi, era già sceso e se ne stava a osservare il paesaggio circostante quasi fosse un alpinista arrivato in vetta, appena ci vide fece cenno di avvicinarsi. Visto da vicino, sarà perché ero piccolo, mi sembrava una montagna, pure l’orologio che portava al polso era gigantesco, ricordo benissimo l’abbigliamento: giubbotto marrone, foulard e occhiali da sole, subito dopo scese anche una donna bionda, rimasta fino a quel momento dentro l’aereo ad armeggiare con delle carte in mano, era molto più giovane del pilota e aveva un foulard sui capelli. Mi avvicinai all’aereo e iniziai a sfiorarlo delicatamente, proprio come si fa con un oggetto misterioso, “Erce! No tocar!”, mi redarguì papà Ioani, sopraggiunto nel frattempo, strattonandomi via con forza, in mia difesa però intervenne la donna che mi prese in braccio. Provai subito una sensazione di sicurezza, mi riportò vicino all’aereo facendomi toccare tutto quello che volevo poi, mi accarezzò la testa, fu la prima volta in vita mia che sentii il profumo di una donna, un momento magico interrotto bruscamente dalla Bepina, “Via, via, vanti casa!”, mi trascinò verso casa mentre gli altri se ne stavano ancora lì a godersi lo spettacolo, urlai come un forsennato che volevo rimanere mentre iniziavo a dimenarmi e a piangere a dirotto, di quella rabbia, rimane vivo oggi più che mai, il ricordo.

“Boni apetiti”, di colpo mi ridestati dallo stato di catalessi in cui ero caduto, era sopraggiunto un tipo in bermuda e canottiera dall’aria assai trasandata, un camionista dell’Est, lo dedussi dall’accento, dal forte odore di cipolla che emanava e dal bestione con le scritte incomprensibili parcheggiato a ridosso della mia auto, realizzai subito che i miei “alberi da meditazione” erano apprezzati a livello internazionale. Dopo un primo fisiologico momento di reciproco imbarazzo, cominciai a conversare con il mio inaspettato compagno di pranzo che, dal punto di vista delle pietanze, era molto più fornito e organizzato di me. George, capitava da queste parti, proveniente dalla Romania, almeno due o tre volte al mese, se il tempo lo permetteva, preferiva anche lui pranzare sotto questi alberi rispetto alla classica nonché tossica trattoria da camionisti. Anche lui figlio di contadini, mi raccontò della sua terra, di quanto fosse bella e vasta ma anche della miseria nera che vi imperversava sia prima che dopo la dittatura, rimanemmo li ancora un bel po’ di tempo, entrambi in silenzio e immersi nei nostri pensieri, alla fine ci stringemmo con vigore la mano quasi a suggellare la solidarietà tra due “tosi de campagna”.

Attesi con ansia i due mul, convocati da me per cena, avevo preparato delle specialità estive: fusilli con pesto, mozzarella a cubetti e pomodorini e l’insalatona di tacchino, a seguire il solito miscuglio di gelato, anguria e liquori ghiacciati. Il Bitol si presentò con una confezione di sei birre sotto braccio, appena entrato, senza nemmeno salutare, mi rifilò un DVD, conteneva un filmato da vedere immediatamente, si fiondò poi ad aprire il pacchetto di patatine sopra il tavolo. Dopo pochi minuti fu la volta del Sega aveva un pacco di fogli arrotolati in mano, “’ndemo, ‘ndemo” disse picchiandomi in testa con quel manganello cartaceo. A causa dell’eccitazione galoppante, in tre riuscimmo a creare una confusione tale da far sembrare il nostro ritrovo una concitata riunione condominiale. Il Bitol voleva che vedessimo subito il film “Woodstock 3 days of peace and music”, per Sega dovevamo discutere subito sulla proposta dell’agenzia di viaggi mentre io volevo mangiare subito, prima che la pasta si squagliasse. Richiamai l’assemblea all’ordine: avremmo ascoltato quello che Sega ci doveva dire mentre mangiavamo poi, al dessert, ci saremo accomodati sul divano per vedere il film.

Sega riferì riguardo l’affare del secolo che proponeva l’agenzia, partenza da Venezia, scalo a Londra, ripartenza da Londra il giorno successivo per New York, il pernottamento della notte a Londra e due pernottamenti a New York, ritorno a Venezia sempre via Londra, il tutto per 950 Euro. Per il resto del viaggio ci saremo affidati al destino in loco, altrimenti che avventura sarebbe stata, il socio aveva inoltre calcolato che avremo dovuto aggiungere circa altri 700 Euro tra pasti, alloggi e spese varie; del meticoloso Sega ci si poteva fidare, sicuramente quella cifra era quanto di meglio il mercato potesse offrire.

Approvammo all’unanimità la proposta, misteriosamente senza alcuna obiezione dal parte del Bitol che, perennemente in bolletta, di solito stentava a tirar fuori i circa 600 Euro che ogni anno spendevamo per le rituali vacanze al mare, scoprii in seguito che Sega, con molta discrezione, in questa e altre occasioni, ebbe modo di aiutarlo finanziariamente.

Nel Bitol iniziarono a scatenarsi le fantasie più stravaganti, come quella di farci ritrarre mentre attraversavamo le strisce pedonali più famose della storia ovvero quelle di Abbey Road a Londra, emulando ciò che gli “originali” (Beatles) avevano fatto nel lontano 1969, quando saremo stati a New York non dovevamo mancare di fare una capatina al Strawberry Fields  in Central Park dove c’era il mitico memorial di John Lennon, il viaggio assumeva sempre più i contorni di un pellegrinaggio.

Il Bitol, ancora con il boccone in bocca, aveva già predisposto tutto per la visione di “Woodstock three days of peace and music”, non potevamo esimerci dal partecipare al cineforum, pena la radiazione dall’album degli amici. Attirarono subito la mia attenzione le immagini del luogo dell’evento; non mi aspettavo di vedere delle verdissime dolci colline, dava l’idea di essere un posto incantevole e mi fece venire voglia di essere già li.

Mentre il Bitol provvedeva a “sottotitolare” le scene con svariate esclamazioni del tipo “varda queo” o “varda ‘staltra che giovane”, mi concentravo sulle ragazze con la fascia nei capelli, ce n’erano tantissime e, pure nude che facevano il bagno nel mitico Filippini Pond. Non sapevo perché, ma era li che bisognava andare, era li che bisognava cercare.

Continua

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