Jesolo

Fio dei fiori capitolo 10 – Capitolo precedente


Nonostante avessimo tirato tardi, alle undici eravamo già distesi sul solito pontile zona ospedale. Era diventato il nostro posto ormai da qualche anno, in precedenza frequentavamo zone più “in”, ovvero il Lido Ovest, perfette per speranzosi cacciatori di montarei della prima ora, qui a Jesolo esiste un tacito accordo, man mano che avanzi con l’età ti devi spostare sempre più verso est.

In fin dei conti la nostra zona non è per niente male, la singolarità è che i nostri compagni di pontile sono, ogni stagione, sempre gli stessi. All’estremità lato mare del pontile si piazza un capellone tutto tatuato, seguono un paio di signore che, nonostante la stazza non si vergognano nel mettere le proprie bocce al vento e filo interdentale tra le chiappe, a un metro di distanza abbiamo un uomo di mezza età in compagnia di una giovane donna di colore, famosi per abbandonarsi in effusioni un po’ troppo spinte. A metà pontile circa ci posizioniamo noi tre, con la speranza che o da un lato o da un altro si accomodi qualche interessante presenza femminile, purtroppo raramente succede visto che il posto vicino a noi è usualmente occupato dalla solita  coppia che installa degli originali ombrellini fissati al pontile tramite morsetti, lei piccolina dal faccino simpatico, lui un tipo taciturno e ingobbito che tenta inutilmente di tirare dentro la pancia.

Cuffiette alle orecchie me ne andai in riva a godermi la brezza marina con i piedi a mollo, al mio fianco notai il marito della piccoletta, eravamo nella stessa identica posizione, braccia conserte, sguardo fisso all’orizzonte e labbro inferiore ripiegato verso il mento; per un attimo ci osservammo a vicenda, dovevamo avere di certo qualcosa in comune.

Forse anche lui, come me, stava parlando al mare, è una cosa che faccio spesso. In riva, sotto la sabbia, nascondo ogni anno i miei sogni e le mie aspettative per poi, ogni estate, disseppellirli e raccontare al mare come è andata.

Il mare l’ho scoperto tardi, sembrerà assurdo pur distando solo una trentina di chilometri dal paese, era concettualmente lontanissimo. Nella mentalità contadina il mare ma, più in genere i luoghi di vacanza, erano visti come qualcosa di inutile, riservati alla gente di città benestante, che aveva soldi e tempo da buttar via, per i contadini solo lavoro e doveri, penso che il termine “ferie” lo conoscesse solo chi aveva la fortuna, chiamiamola così, di lavorare in fabbrica. Prima di tutto venivano quei maledetti campi di cui eri schiavo da tempi memorabili, non credo che le donne appartenenti a quella generazione chiedessero ai loro mariti di portarle al mare, se per ipotesi lo avessero fatto, avrebbero ricevuto certamente una sonora bastonata.

La mia prima giornata al mare risale ai tempi delle medie quando, sior Sergio e la Marisa, strappandoci alle grinfie dei nostri familiari, caricarono una domenica dopo messa me, il Bitol e, ovviamente il Sega, nella mitica seicento. Ricordo come fosse ieri, il disagio per non avere il costume, il Bitol aveva invece quello di suo fratello, stetti tutto il giorno con i pantaloni corti e non potei fare il mio primo bagno, mi sentii come un primitivo delle caverne al primo contatto con la civiltà.

Anche se l’ho scoperto tardi, ho la sensazione che il mare abbia sempre fatto parte, come la campagna, della mia vita, è un posto dove sto bene, qualche volta, quando ho bisogno di isolamento e solitudine, ci vengo in inverno. Nei tardi pomeriggi d’estate e nelle giornate terse di inverno io e il mare abbiamo passato dei momenti indimenticabili dai quali me ne tornavo a casa sereno. E’ al mare che ho sempre sperato di incontrare la donna dei miei sogni, finora il mare non è riuscito a farmi questo regalo, pazienza non posso rimproverarlo.

Ogni anno tra me e il mare i discorsi erano sempre gli stessi, lui mi chiedeva sempre se qualcosa era cambiato, se c’erano novità mentre io, rispondevo con rassegnazione che tutta la mia vita, in fin dei conti, era piatta come lui; sotto la sabbia di questo pezzo di litorale Adriatico ho sepolto tutti gli innumerevoli, maldestri e timidi, tentativi di conquistare l’altra metà del cielo. E’ l’unico che non si stufa di sentirmi fare sempre i soliti discorsi, di ripetere sempre la solita, lagnosa tiritera di un mul destinato ormai a rimanere tale per l’eternità.

Basta però poco, una leggera brezza da quel suo orizzonte sconfinato che non cessa mai di stupirmi, e arriva una calda folata di speranza che infonde la voglia di andare comunque avanti.

Quest’anno c’è una grossa novità, si chiama Kate, no, non ho trovato una compagna, magari; tra poco più di un mese sorvolerò l’Oceano, il tuo fratello più grande, con la speranza di trovare una traccia di lei. Le pagine di questo libro che mi ha lasciato si stanno pian piano riempendo della tua sabbia, lo porterò con me, lungo la strada lo mostrerò a chi spero, possa darmi una risposta. Mi piace far sprofondare i piedi nella sabbia del bagnasciuga, forse perché sono una persona statica che ha paura di muoversi, paura di tutto. In queste pagine c’è scritto “Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati. Dove andiamo? Non lo so, ma dobbiamo andare” e ancora, “… volevo andare lontano. Sapevo che a un certo punto di quel viaggio ci sarebbero state ragazze, visioni, tutto; sapevo che a un certo punto di quel viaggio avrei ricevuto la perla”.

Questa volta sento che non posso sottrarmi, devo andare, perché credo che la perla di cui parla il libro …sia mia madre.

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