Gioni, Ciro e El Rutto

Fio dei fiori – Capitolo 5 – Capitolo PrecedenteIndice


Giunto al luogo della riunione, vi trovai anche Gianni, “Gioni Furgon”. Ricordo che scrivo i nomi come vengono pronunciati qui in campagna, dove nessuno si immagina nemmeno lontanamente che si scriva Johnny. Il “cognome” Furgon, deriva dal suo lavoro di sempre, ovvero padroncino per svariati corrieri espressi, ne ha cambiati talmente tanti, quanti i partiti di un politico professionista attaccato alla sedia. Gioni stava parlando a voce bassa con i Bitol e il Sega, quando mi vide entrare ricominciò daccapo il racconto.

In mattinata era andato a fare una consegna alla BS Impianti, al citofono rispose la Sandra, la giovane moglie del paron Benito. Lo invitò nella villa adiacente el capanon in quanto a  quell’ora in ufficio non c’era nessuno. Paron Benito si trovava in Romania per affari. A farla breve Gioni fece appena in tempo ad appoggiare il pacco che la focosa Sandra si avventò subito su di un altro pacco, il suo. Seguì, come consuetudine alla quale eravamo ormai abituati, una minuziosa descrizione dell’incontro erotico. Alla fine le solite raccomandazioni di non farne parola con nessuno altrimenti sarebbero stati guai con la moglie.

Gioni lo conoscevo da più di vent’anni. Del suo racconto, potevano considerarsi reali solo due fatti: che era stato a fare una consegna alla BS Impianti e che paron Benito si trovava in Romania per affari.

Il sesso, in effetti, in quella storia c’entrava, con la differenza che ad averlo praticato era stato probabilmente paron Benito, in qualche bordello rumeno, usanza comune della nostra locale classe imprenditrice.

Per quanto riguardava invece i guai con la moglie, Gioni ne aveva da vendere. Franca, detta ea onta a causa del suo aspetto perennemente trasandato, in particolare i capelli sempre unticci, aveva il vizio del gioco e del bere. Spendeva una buona fetta delle risorse familiari nelle sale bingo e nell’acquisto di tonnellate di Gratta & Vinci, un bel grattacapo per il povero Gioni, l‘unico in famiglia a portare in casa uno stipendio.

Sono anni che Gioni ci intrattiene con i suoi racconti erotici. Da queste parti fanno più audience dei reality show. In paese si narra che il “maestro” Tinto Brass si sia ispirato ai suoi racconti per alcune sceneggiature, semmai è vero il contrario. Sicuramente Gioni ha ispirato l’autoerotismo di buona parte dei villici locali. Pure le mie prime fantasie furono liberamente tratte dai racconti di Gioni Furgon, più dei film che davano a notte inoltrata a Tele Capodistria, unica, a quel tempo, fonte mediatica di approfondimento e documentazione sull’argomento sesso.

Nonostante il triste ménage familiare, oltre alla Franca qualche problema glielo dava il figlio Denis che, per i più maligni, era frutto dell’unico rapporto sessuale della sua vita, Gioni aveva sempre pronta in tasca un’avventura a sfondo erotico da raccontare. Per noi era il termometro indicatore che, in fin dei conti, stava bene.

Quando venne a sapere il motivo del nostro ritrovo, passò più di mezz’ora a elencarci i posti dove avremmo dovuto passare le ferie. Potete facilmente immaginare che non si trattava di amene località dai paesaggi mozzafiato. Secondo lui, per uscire dal cronico status di mul, dovevamo puntare su qualche paese dell’est dove “limando” leggermente la verità riguardo il nostro stato sociale, ad esempio Adriano bastava dicesse di essere un imprenditore del settore auto, saremo sicuramente tornati a casa con un bel trofeo a testa da esibire in paese, “si, per fare la fine del Rutto”, concluse Adriano riferendosi a una storia che vi racconterò dopo.

In quel momento avrei voluto vuotare subito il sacco e raccontare io a Gioni & c. una storia, dove c’entrava il sesso, accaduta realmente da queste parti parecchi anni fa.  La mia testa sembrava fermentare, come se si trattasse di vino Ribolla, ripetutamente agitato e pronto a far saltare il tappo della bottiglia da un momento all’altro.

Visto il particolare momento proposi agli altri due mul di tenere la riunione in pizzeria da Ciro, dopo il classico iniziale tentennamento, motivato dal fatto che ormai metà dei nostri stipendi, a son di andar a mangiare da lui, finiva nelle tasche del Ciro, la proposta venne accettata.

Per chi ricorda la serie di telefilm “Happy Days” la pizzeria da Ciro era per noi paragonabile ad “Arnold’s”. Da quando Sergio Rutto aveva venduto il bar del paese, nostro ritrovo di sempre, ai soliti cinesi, eravamo emigrati alla pizzeria “Vesuvio” da Ciro.

Ciro, in realtà si chiama Antonio ma, per uno che ha una pizzeria, Ciro fa sicuramente più tendenza. E’ un teron nativo di S. Giuseppe Vesuviano, “venuto su” nel nord-est in qualità di sottufficiale dell’esercito, addetto alla mensa truppa, in una delle tante caserme oggi dismesse presenti nei nostri paraggi che, pullulavano di valorosi soldati pronti a difenderci dagli invasori russi.

Ciro da bravo napoletano pensò bene di accasarsi da queste parti circuendo tale Carla Meneghel, figlia di Piero, gastaldo dei “Passi”, famiglia di tirchi latifondisti da secoli. Considerando che la Carla, almeno trenta  e passa anni fa, non era male  e in quanto a schei, stava ancora meglio, per il Ciro fu un vero e proprio colpo da maestro. Un maestro sicuramente Ciro lo è sempre stato in cucina, si dava già da fare, come secondo lavoro, in alcune pizzerie, quando era ancora sotto le armi. Ovviamente nel nostro paese si vociferava che si procurasse gli ingredienti sottraendoli alla mensa dell’esercito.

Una volta congedato, Antonio detto Ciro chiamò in terra veneta il fratello Nicola e diede vita, grazie anche al capitale fornito dal suocero Piero, alla pizzeria-trattoria “Vesuvio da Ciro”. Gli investimenti di paron Piero, furono molto presto ripagati tanto che, la “Joint venture” familiare veneto-campana, diede origine a una delle famiglie più benestanti del Paese. Ogni tanto paragono la storia imprenditoriale del Ciro e quella degli sfigati fratelli Zago, cercando inutilmente di capire quale misterioso disegno divino ci sovrasta.

El nostro teron, come lo chiamiamo amichevolmente, è divertentissimo. Nelle umide e tristi serate di caigo invernali riesce a farci sentire il sole e il caldo del suo paese. Grazie ai suoi racconti, ci sembra di essere immersi in una commedia con Totò e Peppino. Possiede inoltre un cuore grande, lo ha dimostrato quando, nonostante non ne avesse bisogno, ha assunto come cameriere Sergio el Rutto.

Sergio, detto Rutto sia per via del suo aspetto non proprio invitante e dei sonori rutti da lui prodotti con maestria, gestiva insieme agli anziani genitori l’unico bar del paese. “’A Pergoa” de sior Ugo e a Pina, era un’istituzione, il classico bar-osteria di campagna con annessa pergola, da cui il nome, e campo da bocce. In inverno si mangiava museto, fasioi, nerveti e tripa mentre in estate comparivano anche i bovoeti; pan e sopressa erano invece sempre disponibili. Naturalmente circolava dell’ottimo vino, non ha mai scordato el clinton e le macchie che lasciava sulle tovaglie, l’odore mi dava fortemente fastidio, forse è per questo che non ho mai bevuto vino. Secondo me, l’UNESCO dovrebbe dichiarare patrimonio dell’umanità questi caratteristici locali, dei quali, ormai, ne sopravvivono solo pochi esemplari. Purtroppo, i nuovi proprietari cinesi, ne hanno stravolto completamente la fisionomia.

I ricordi più belli e intensi risalgono ai gloriosi anni ’70. Da Ugo e ea Pina passavamo quasi tutte le domeniche d’inverno dopo essere stati in giro per i campi con la bicicletta. L’aria era intrisa del fumo delle Nazionali misto a vino, in sottofondo c’era sempre “tutto il calcio minuto per minuto” che veniva puntualmente coperto dalle numerose besteme, usate a mo’ di punteggiatura dagli avventori intenti a giocare a carte. Solitamente stavamo in piedi vicino al tavolo di qualche parente o conoscente, occasione buona per scroccare qualche bagigio o stracaganassa e ascoltare divertiti i loro discorsi “da grandi”, ogni tanto qualcuno, mosso da compassione diceva “Pina daghe ‘na spuma a sti tosatei”. Quando poi qualcuno di loro cominciava a essere ben brillo ci divertivamo a prenderlo per il culo dicendo, ad esempio, che fuori c’erano gli extraterrestri sugli alberi.

Ugo e ea Pina erano i confidenti dell’intero paese, anche se le confessioni in stato di ubriachezza non dovrebbero considerarsi proprio spontanee. Don Guerino el piovan che spesso faceva una capatina per un buon grappino gli diceva “a voi due raccontano più peccati che a me che, sono un prete”, quando poi sentiva le numerose besteme provenire dalla sala “ringraziate che non sono gas altrimenti saltiamo tutti per aria”. Ea Pina, donnona più larga che lunga, era con noi tosatei molto materna, le sere d’estate ci invitava spesso sotto la pergola a mangiare l’anguria e a guardare “giochi senza frontiere” sul televisore spostato all’aperto; era uno dei pochi svaghi estivi visto che di andare in vacanza non se parlava.

Sergio Rutto man mano che gli anni passavano, anche per via del progressivo invecchiamento dei suoi, acquistava sempre più un ruolo dominante nella gestione del bar cercando, con tentativi più o meno riusciti, di adeguarlo ai tempi senza però, per fortuna, stravolgere la sua identità. Negli anni ’80 fecero la loro comparsa tramezzini e panini caldi, in sottofondo c’erano i programmi delle radio private dove ogni tanto si telefonava per qualche dedica.

El Rutto era destinato a diventare un perfetto mul come noi con quel aspetto, difficilmente qualche tosata se lo sarebbe rancurà . Il suo destino cambiò invece qualche anno fa quando, insieme ad alcuni amici, andò in vacanza a Cuba; incredibile, lui, che era uscito dal paese una sola volta nella vita, per fare il servizio militare. Anche in quell’occasione Gioni Furgon si prestò a fare da consulente dipingendo un quadretto delle Cubane che non oso descrivere, consigliò al Rutto di dire alle “prede” che, qua in Italia, era proprietario di un ristorante. Non so cosa abbia detto una volta a Cuba, fatto sta che, mentre gli amici tornarono dopo i canonici quindici giorni, lui vi rimase, chiedendo a Ugo e a ea Pina di inviargli, con mille difficoltà, altri soldi.

Ci eravamo quasi dimenticati di lui poi, un giorno, mentre io e gli altri due mul stavamo cazzeggiando sul piazzale della chiesa, arrivò Gioni strombazzando, inchiodò il furgone davanti a noi, mancò un pelo che non ci investisse. Notizia del secolo, sabato prossimo sarebbe tornato il Rutto con una cubana in più, fonti attendibili avrebbero confermato che lei fosse piena, “cussì xè fa”, disse ripartendo sgommando. Allibiti, ci guardammo in silenzio, poi Sega pronunciò il classico “eo savevo mi”.

Con passi decisi ci recammo al bar, una volta entrati scorgemmo malcelati sorrisetti ironici nelle facce dei presenti, la Pina ci annuncio tutta emozionata che sarebbe diventata suocera e nonna in un colpo solo, i piccioncini si erano già sposati, sottolineò poi che ci erano voluti un sacco di soldi per le carte; noi ovviamente, con malcelato stupore, fingemmo di non sapere nulla.

Quel sabato, mezzo paese, si trovava, per puro caso, nelle vicinanze di casa sua, l’altra metà nei pressi del bar, in uno dei due posti il Rutto sicuramente sarebbe apparso. Si conoscevano tutti i dettagli: el Rutto sarebbe atterrato a Venezia, proveniente da Cuba via Parigi, all’aeroporto andava a prelevarlo il cugino Paolo munito di station wagon. Sembrava di aspettare un personaggio dello spettacolo e, in effetti, come tale arrivò davanti al bar.

La prima cosa che ci colpì furono i capelli, “ha il codino!” esclamò qualcuno dietro di me. Era ben abbronzato, indossava pantaloni bianchi, una camicia coloratissima, occhiali da sole e un vistosissimo panama bianco. Sega emise un fischio e, contemporaneamente, traccio con la mano, unendo pollice e indice, una linea orizzontale il che, stava a significare: “in che condizioni pensavate tornasse uno sulla soglia dei cinquanta che è stato due mesi a Cuba e che si è trovato una che sarà vent’anni più giovane di lui ?”

Subito a seguire uscì dall’auto quello che aspettavamo con più ansia e curiosità, ovvero il trofeo di caccia. L’espressione di soddisfazione del Rutto parlava da se, sembrava gridare a tutti “c’è l’ho fatta!”. Si fece improvvisamente silenzio quando lei, Maria Milagros, appena fuori dall’auto, gli diede un bacio passionale. Gioni si voltò verso i presenti portando la mano al mento che, nell’universale linguaggio dei segni, significa: “pezzo di gnocca”. Seguirono, tra un misto di invidia e imbarazzo saluti e presentazioni.

Il Rutto benché parecchio stanco del viaggio, non vide l’ora di sbottonarsi subito con i fedelissimi e, pieno di orgoglio, ci raccontò tutto. Abbassando il tono della voce, iniziò a rivelare i dettagli più intimi; Gioni insisteva per maggiori dettagli. Venne subito al punto, chiedendo spiegazioni su come, nonostante le sue infinite raccomandazioni, fosse potuto succedere il fattaccio; El Rutto se ne uscì con quella che divenne una frase storica: “Boh, me ricordo de essarme ‘pena pusà”. Da quel giorno si usò dire “stasera xè pusemo”, “tizio xè ga pusà co tizia”, immaginatevi riferito a cosa.

Venimmo bruscamente interrotti da Maria che, trascinò via il Rutto, imprecando nel contempo in italo-spagnolo per come il cugino Paolo aveva sistemato le numerose e pesantissime valigie. Restammo colpiti per le maniere brusche e, per il tono di voce alquanto alto e martellante, Sega se ne uscì subito con un “mah”. Il Rutto prima di sparire in auto, strattonato quasi fosse un delinquente appena arrestato, fece tempo a dirci che doveva fare una festa.

Continua ….

Capitolo Successivo

Home Racconti

Pubblicato da