Fio dei fiori – Capitolo 2 – Capitolo precedente – Indice
18 giugno 2009
Quel 18 giugno de sofego, come chiamiamo noi l’afa in campagna, me ne stavo disteso a letto in casa nova. Di case nove da noi ne potete vedere parecchie, tutte uguali, spesso costruite accanto alla casa vecia, ovvero il vecchio casolare pericolante, ormai usato come deposito. Le case nove sono casette di due piani, misurano massimo 15 metri per 15 metri e soprattutto non sono quasi mai dipinte ma lasciate in grigio intonaco, un vero esempio di globalizzazione architettonica.
Ogni giovedì mi reco in casa nova per la visita infrasettimanale, che io chiamo “istituzionale”, a mia madre Giuseppina detta Bepina ea vedova, 83 anni portati malissimo. Ea Bepina è da circa otto anni non più autosufficiente, un miscuglio di artrosi, diabete, depressione e demenza senile l’hanno ridotta ormai a trascorrere i suoi giorni in carrozzina a fare discorsi incomprensibili ad alta voce. In realtà, con la testa non è mai stata del tutto a posto o, come diciamo noi, “no’ la ga tutte e fassine al coverto”. Mio padre l’ha sempre considerata una insemenia .
Bepina, detta Bepina ea vedova dal novembre 1977 quando morì mio padre Giovanni alias Ioani Nosea. Inspiegabilmente mia madre vestiva, già da prima, sempre di nero e, sempre inspiegabilmente, ogni sacrosanto giorno andava in cimitero per cui, non dovette cambiare abitudini ma, soprattutto look.
Purtroppo ogni domenica pomeriggio, in cimitero ci dovevo andare pure io obbligato, a braccetto della Bepina, a passare in rassegna i vari “pori”, ovvero i parenti defunti. Vi risparmio l’elenco completo ma, si partiva dalla pora Olga, mia nonna morta nel 1951 per finire sempre a un certo Rino morto nel 1966.
Tornando a noi, quel giovedì, fiaccato dal sofego e dal pranzo, stavo disteso su un fianco tutto petaisso. Non serviva a nulla tenere le tapparelle abbassate tutto il giorno, l’afa, come un gas tossico, sembrava penetrarmi nei polmoni fino a soffocarmi. La sgradevole sensazione era accentuata dal pensiero che, fra mezz’ora sarei dovuto salire sulla rovente auto della ditta, rigorosamente senza climatizzatore, per tornare alla solita e insignificante routine lavorativa; chiusi gli occhi e feci partire il film. Sceneggiatura ormai collaudata: un piccolo albergo di charme in riva al mare, la serata era tersa e ventilata, stavo cenando nel porticato assieme a una bellissima ragazza, arrivata il mio stesso giorno. Mi raccontò di essere lì per ritrovar pace dopo una burrascosa vicenda sentimentale. La incantavo con discorsi filosofici riguardo la bellezza della solitudine, lei, con il viso appoggiato sui pugni chiusi, mi ascoltava attentamente, i suoi occhi verdi non smettevano di fissarmi. Ad un tratto prese ad accarezzarmi dolcemente il viso poi, neanche me lo sentissi, una voce fuori campo mi fece ritornare bruscamente al qui e ora.
”Angeo, Angeo veni a vedere cosi ha trovato”, era Irina,. la badante moldava. Il nome basterebbe a scatenare una tempesta ormonale in un mul, definizione locale per identificare i single come me, solo che in realtà è una signora energica e ben piazzata vicina alla sessantina, inoltre, è dotata di una voce talmente squillante che la si potrebbe usare come antifurto. Mi alzai intorpidito asciugandomi con la mano il rivolo di bava che nel frattempo si era riversato sul cuscino.
La voce proveniva dalla camera della Bepina. L’avevo autorizzata a sistemare i cassetti del vecchio comò, era necessario mettere un po’ di ordine ma, soprattutto, buttare via la biancheria che, ormai vecchia di decenni puzzava di muffa.
Per mamma Bepina, quel comò è sempre stato sacro e, fino a quando era mentalmente in salute, inavvicinabile. Come tutte le vecchie donne di campagna possedeva pochissime cose di sua esclusiva proprietà, tutto quello a lei caro si trovava in quel metro cubo scarso del comò. Ea Bepina quando si arrabbiava gridava come una forsennata e a questo si limitava; l’unica volta che, al contrario di mio padre, alzò le mani con me, fu quando all’età di sei anni, spinto dalla curiosità, aprii il famoso comò. Quell’evento eccezionale fece in modo che ne stetti alla larga per sempre; pazienza, in fin dei conti era bello pensare che in casa ci fosse un posto così misterioso. Mamma, tipico di molti anziani dotati di badante, si era fissata sul fatto che Irina, già da tempo, ne avesse trafugato il prezioso contenuto. Potete pensare come trasalii a quell’esclamazione, sicuramente si trattava di un ritrovamento misterioso e importante.
La trovai con la faccia stupita mentre maneggiava un libro spiegazzato avvolto su una specie di tovagliolo. Mi avvicinai timorosamente, ciò che avvolgeva il libro non era un tovagliolo bensì una specie di bandana rossa con dei disegni bianchi.
Non riesco ancora a descrivere lo stato d’animo di quel momento era come se mi aspettassi che, prima o poi, dovesse succedermi una cosa del genere, mi sembrava di aver già vissuto quel preciso momento altre volte. La bandana, in particolar modo, aveva un’aria famigliare, un vago ricordo dell’infanzia. Irina, con fare cerimonioso, mi porse in mano i due reperti archeologici.
Il mistero si infittì alla vista della copertina, On the road di tale Jack Kerouac, addirittura un libro foresto. Sfogliai velocemente le pagine piene di macchioline giallognole dalle quali usciva il classico odore di muffa che a me, chissà perché, è sempre piaciuto tanto.; ero fortemente convinto che l’interno dovesse necessariamente celare qualcosa, non mi sbagliai, dietro la copertina trovai questa frase scritta a penna:
August 21, 1966
Life is a journey my little baby, my life is a journey without a destination.
I do not know what I’ll do tomorrow, I just play my guitar, that’s what I need to survive.
Now I must continue my journey, i would like to take you with me but this is impossible.
Live in peace and do not be afraid to follow the music, remember that music has never killed anyone
Goodbye my little baby
Kate
C’erano quasi trenta gradi in casa appesantiti dalla solita umidità, ciò nonostante cominciai a sentire freddo, mi presero le palpitazioni e iniziai ad agitare le gambe; a Irina, dovevo essere sembrato sul punto di fare un ictus; me ne stavo con gli occhi fissi sulla frase senza proferir verbo. “Sai cosa c’è scritto?”, disse sbirciando il libro mentre contemporaneamente, tentava di tenermi fermo. Cercavo invano di capire il significato di quella frase, le parole si mescolavano disordinatamente, riuscivo solo a focalizzare la data. Potrebbe sembrare una reazione spropositata se non fosse che io, Angelo Furlan detto fugasseta, il perché ve lo spiegherò in seguito, sono nato il 10 agosto 1966. La Brava Irina che conosce l’inglese meglio di me che, in quel momento, stentavo a comprendere pure l’italiano, mi lesse la frase.
21 agosto 1966
La vita è un viaggio mio piccolo. La mia vita è un viaggio senza destinazione.
Non so quello che farò domani, so solo suonare la mia chitarra ed è quello che mi basta per sopravvivere.
Ora devo continuare il mio viaggio, mi piacerebbe portarti con me ma è impossibile.
Vivi in pace e non avere paura di seguire la musica, ricordati che la musica non ha mai ucciso nessuno.
Addio mio piccolo
Kate
Mezzo secondo dopo la “e” di Kate dall’emozione mi precipitai subito in bagno. Quando uscii, ancora con la testa completamente nel pallone, vidi Irina che se ne stava appoggiata allo stipite della porta, testimone ufficiale dell’evento, da persona molto saggia e perspicace, come può esserlo una con una vita difficile alle spalle, aveva l’aria di aver capito tutto, anche quello che ora dovevo assolutamente approfondire.
Come da copione, mamma irruppe brutalmente in scena agitandosi a più non posso rischiando pure di ribaltarsi dalla carrozzina, non sopportava sentir parlare delle persone tra loro senza che fosse coinvolta, sospettosa allo stremo, pensava si stesse sempre complottando contro di lei. Irina corse a calmarla mentre io, con il malloppo in mano, optai per la ritirata, salutai frettolosamente e imbucai di corsa el porton per una sana fuga da quella gabbia di matti che, ormai da qualche anno, era diventata ea casa nova. La prima cosa da fare era convocare subito una riunione urgente alla quale, come è facile dedurre, ero l’unico partecipante.
Fin dai primordi della mia esistenza, per ogni cavolata, tipo come reagire e consolarmi dopo l’ennesima bastonata di mio padre, iniziai a indire riunioni tra me e me; ad oggi, dopo più di quaranta anni, la maggior parte delle riunioni si svolgono sempre con la presenza di quell’unico partecipante.
Spesso sono lunghe, estenuanti e ripetitive; al momento ne avevo in corso svariate che, andavano dall’acquisto di un nuovo telefonino all’auto nuova, di quest’ultima poi, non oso contare le numerose sedute, nel vero senso della parola, in quanto le tenevo comodamente seduto sul water. La cosa durava ormai da tre anni e mezzo, il mobiletto del bagno era stracarico di preventivi, depliant e riviste di automobili per le quali finora avevo speso una tale cifra che avrei tranquillamente potuto nel frattempo comprarmi già le gomme e mezza carrozzeria. Alla luce dei nuovi eventi ovviamente tutte le precedenti riunioni in corso furono rimandate.
Presi i reperti, mi infiali nella scassatissima Fiat Punto aziendale in direzione della “base” ovvero il mini appartamento, ai margini della cittadina di provincia, dove abitavo ormai da sei anni. Acquistato con sudati risparmi più l’inevitabile mutuo, per mia sorella Teresa e mio cognato Gino era invece frutto di soldi abilmente sottratti per anni ai miei genitori, nonché un abile operazione, pianificata a tavolino, per sottrarmi ai doveri verso mia madre mentre loro, rimasti ad abitare in casa nova al piano superiore si sono dovuti accollare l’onere di farle assistenza nonché, tutte le altre faccende tipiche di una abitazione rurale.
Ogni volta che percorrevo la strada dalla casa nova al mio appartamento e viceversa era un continuo affiorare di sensi di colpa veri o presunti, provocati dalle incessanti prediche di Gino e Teresa. Questa volta però l’eccitazione era alle stelle, sul sedile a fianco c’era un mistero che avrebbe potuto cambiare per sempre e in meglio la mia vita. Finora l’unica cosa eccitante, appoggiata su quel sedile di cui avevo ricordo era la Micol. Impiegata tuttofare, naturalmente stipendiata in nero, della Emme Zeta Profilati, le avevo dato un passaggio dal meccanico per ritirare l’auto, la minigonna di jeans che indossava quel giorno aveva finito per alimentare le mie fantasie erotiche per alcuni mesi.
Una volta in casa predisposi tutto per garantire il massimo confort alla riunione e favorire la concentrazione, quindi accesi subito il condizionatore a manetta, l’impianto stereo per diffondere dell’ottima musica New Age e il PC nel caso servisse Internet. Telefonai subito al Franzin ovvero el paron per dirgli che, a causa di problemi con mia madre, e lo erano davvero, sarei arrivato un po’ più tardi. Il mio lavoro di tecnico installatore e riparatore di registratori di cassa, fotocopiatrici, distruggi documenti, calcolatrici, scaffali e tutto quello che commerciava il Franzin poteva aspettare un po’.
Dovetti terminare velocemente i preparativi in quanto, probabilmente a causa dell’agitazione, dovetti di nuovo correre in bagno per cui, la riunione iniziò anche questa volta, tanto per cambiare, seduto sul water.
Sistemai il materiale sul mobiletto, gettando brutalmente a terra le decine di riviste di auto, cominciai a sfogliare nervosamente il libro in cerca di un qualche altro indizio, una annotazione una sottolineatura niente, solo quella frase scritta alla fine. Notai la calligrafia, molto bella e chiara, mi feci scorrere velocemente le pagine a mo’ di ventaglio sotto il naso per sentire ancora quell’odore tipicamente vintage.
Il Web ormai è uno strumento indispensabile per risolvere i misteri più intricati, l’avevo visto fare un sacco di volte nelle serie televisive di polizieschi di cui vado matto. L’unico elemento finora disponibile era il titolo del libro, con trepidazione digitai “Jack Kerouac on the road” nella casella di ricerca e poi click. Non appena la barretta di avanzamento comincio a colorarsi chiusi gli occhi e cominciai a sudare, conscio che da quel preciso momento cominciava un’avventura; aspettavo i risultati come se si trattasse di un esame clinico di vitale importanza.
“Jack Kerouac – sulla strada – libro manifesto della Beat generation – San e Dean, due amici in viaggio per tutta l’America in fuga dal conformismo e dalla noia, senza una meta, una sicurezza, una casa..…”
Schizzavo nervosamente da una pagina web all’altra senza mai soffermarmi a leggerne con calma i contenuti, in mezz’ora sarò corso in bagno almeno tre volte, avevo i piedi freddi come a gennaio; continuavo inoltre, ad alzarmi dalla scrivania e andare avanti e indietro continuamente come un criceto nella gabbia.
Squillò il telefonino, con le mani sudaticce e tremolanti impiegai un’eternità per pigiare quel maledetto tasto verde, era il Franzin. Non mi ero reso conto che erano passate quasi due ore, stavo ancora in mutande, avevo inoltre inghiottito un intero pacco di frollini al cioccolato, un kilo di Giambonetti, nonché esaurite tutte le riserve di the freddo e chinotto. Mi scusai dicendo che ero ancora incasinato per via di mia madre e che ci saremo rivisti l’indomani, figurarsi se pensavo di tornare al lavoro.
Un fatto era quasi certo, la misteriosa Kate aveva qualcosa a che fare con gli hippy ma, al momento, non era questo il pensiero dominante che cominciava a prendere corpo nella mia mente. Cominciai nuovamente ad agitarmi, dovevo ragionare con calma applicando la logica, mi distesi a letto, feci alcuni profondi respiri, dicono di fare sempre così e, partii con una serie infinita di seghe mentali.
Come poteva essere finito nel comò della Bepina quel libro? I miei, essendosi fermati alla terza elementare, sapevano a malapena leggere; non erano certo dei letterati con la casa piena di libri. Se lo avessero trovato per caso, lo avrebbero certamente usato per alimentare la cucina economica che, secondo la loro mentalità, era l’unico scopo al quale poteva servire. Quindi, se la Bepina lo aveva conservato nel comò, un motivo doveva per forza esserci.
Come potete immaginare però, il tema principale era un altro ovvero, quel dubbio che mi ha assalito sin dagli istanti successivi la lettura della fatidica frase. Se fosse stato vero, il solo pensarlo mi fece venire la tachicardia, che non ero figlio suo; come avevano fatto i mei a nascondere il fatto?
Un elemento importante, però, in effetti, poteva avvalorare la tesi: il fatto che sono nato in casa.
La casa colonica di noi Furlan, detti nosea per il noceto secolare piantato dai miei avi, si trovava, a quei tempi in una posizione parecchio isolata rispetto al paese. Siamo sempre stati isolati geograficamente ma, ancora di più socialmente, a causa soprattutto del carattere burbero di mio padre, pur avendo entrambi i miei genitori famiglie numerose, ricevevamo visite di rado. Tra l’altro mia sorella, non era presente quando sono nato, in quanto passava l’intera estate in colonia agli Alberoni; un testimone in meno. Altro tassello importante, l’età di mia madre, nel ’66 aveva quarantatré anni, allora non era certo usuale partorire a quell’età.
I fatti, gli indizi reali, non erano tutto, c’era qualcosa di intangibile. Nella mia mente, non so perché, stava già da tempo nascosta quella strana convinzione insomma, non mi sentivo figlio di Ioani e Bepina. Era solo una sensazione, una di quelle cose inspiegabili che si annidano nell’io più profondo.
Seguire la musica, le parole di Kate, stavano facendo riemergere un sacco di cose come la misteriosa attrazione per la musica che, sembrava mi fosse cresciuta dentro. Anche se mia mamma mi aveva regalato una piccola fisarmonica, non avevo imparato a suonare nessun strumento eppure, di musica vivevo. Mi accompagnava in ogni momento della vita, mi è sempre stata di grande aiuto in moltissime situazioni di difficoltà e nei momenti di tristezza. Ripensando alla musica, il filo che mi stava legando a Kate, mi distesi nuovamente a letto.
Cercai di immaginarmi come poteva essere fisicamente nell’ agosto del ’66, giovane e bella capelli lunghi avvolti da quella fascia rossa, assomigliava a una squaw indiana. La vedevo seduta con le gambe incrociate all’ombra del morer sul prato in fianco a casa. La sua voce e il suono della chitarra echeggiavano tutt’attorno grazie al silenzio che regna d’estate nei campi, quando sembra che, specie nelle ore più assolate, la campagna si prenda un po’ di riposo. La vedevo assorta ad ascoltare le cicale che, insieme al vento, e alla sua dolcissima voce, erano gli unici suoni che si sentivano quel pomeriggio di agosto del ’66.
La testa mi stava scoppiando, meglio uscire, non prima di aver deliberato quanto segue:
- Massima riservatezza sul fatto, a cominciare da mia sorella e mio cognato. Non una parola nemmeno con Armando e Adriano gli altri due fedelissimi mul.
- Necessità di un accurato interrogatorio all’unico testimone vivente, ovvero la zia Teresina.
- Comprare l’edizione italiana del libro al fine di capirci qualcosa su ‘sta Beat Generation.
- Prendere cappuccino e pastina, ce n’era proprio bisogno.
Continua ….